– Quando si ragiona dei problemi della scuola ci sono tre cose che non dovremmo mai dimenticare. La prima: la scuola di una volta non era migliore, era la scuola di dio, patria e famiglia. La seconda: qualsiasi cambiamento dovrebbe puntare all’apprendimento permanente. La terza: qualsiasi percorso diverso può realizzarsi soltanto con la passione di chi vive la scuola. “Non c’è riforma che possa cambiare l’istruzione, se non la professionalità e la passione di chi ogni giorno incrocia gli occhi delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi – scrive Giovanni Fioravanti – Insegnanti che di queste doti ne hanno da vendere ce ne sono in giro per le aule del nostro paese, basterebbe darsi da fare a cercarli, a riconoscerli e a chiedere il loro aiuto. Ma, per favore, evitiamo di lasciar sproloquiare i soliti soloni…”
Grande disadattata per Bruno Ciari, classista per i ragazzi di Barbiana, nel corso di mezzo secolo la nostra scuola da fabbrica di esclusione sociale si è mutata in apparato di emarginazione culturale.
Non adatta né al recupero sociale né alla compensazione degli svantaggi, non utile, in definitiva, ad assolvere al dettato costituzionale di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Del resto l’insipienza politica che in questi decenni ha accompagno la questione dell’istruzione nel nostro paese non poteva che condurre qui, forse dobbiamo ringraziare i nostri insegnanti se non è accaduto di peggio.
Una scuola a disagio di fronte al disagio dei giovani. Una scuola malata che non cura i malati, una scuola sanatorio, considerate le percentuali con le quali si moltiplicano alunne e alunni con disturbi specifici dell’apprendimento dalla primaria alle superiori.
Se gli ospedali non funzionano, non sono i pazienti che hanno sbagliato ad ammalarsi, eventualmente è il sistema che deve essere in grado di correggersi. Più preparazione professionale, più strutture, più ricerca, e soprattutto più risorse che consentano di mettere in opera tutto questo. Così, se l’Invalsi, l’istituto nazionale che si occupa di monitorare l’andamento dell’istruzione, continua a verificare che non tutte le ciambelle escono con il buco, anzi i processi sono in netto peggioramento, non è che dobbiamo cambiare le nostre ragazze e i nostri ragazzi, che sono quello che sono, ma, con ogni evidenza, sarà necessario capire cosa non va nella pratica dell’insegnamento-apprendimento. Non è che la cosa è nuova, neppure di ieri o dell’altro ieri, è da tempo che i segnali si manifestano e gli appelli si sprecano.
Solo due anni fa, ad esempio, fece scalpore l’allarme lanciato da seicento docenti universitari che, con lettera indirizzata al governo, sollecitavano interventi urgenti per rimediare alle carenze con cui gli studenti escono dalle nostre scuole. Da allora: silenzio. La novità di quest’anno non fa che peggiorare il quadro. Per la prima volta l’Invalsi ha testato gli studenti al termine delle scuole superiori. Ne è uscita la prova provata che non solo il sistema non funziona a conclusione del primo ciclo di istruzione, ma che la situazione resta invariata, se non più grave, anche alla fine del secondo ciclo. Le carenze accumulate a tredici anni sono le stesse a diciotto.
Di cure e di medici al capezzale non se ne vedono. I cerusici in giro pare che siano più propensi all’ignoranza che all’istruzione. C’è chi sostiene che la scuola non funziona perché non è più quella di prima, dimenticando, o sottacendo, che quella di prima era la scuola di Dio, Patria e Famiglia. Qualcuno invoca il ritorno all’uso dei grembiuli, qualcun altro pensa che tutto si possa risolvere con l’autonomia regionale differenziata. Le responsabilità, accompagnate all’inettitudine politica, sono gravissime. Da un ministro all’altro la situazione della scuola nazionale è andata via via sempre più deteriorandosi e la crescita del debito pubblico ha ridotto all’osso le risorse da destinare all’istruzione di giovani e adulti. Del resto i voti si prendono promettendo meno tasse anziché più istruzione (su questi temi leggi anche l’ottimo articolo di Paolo Mottana, Invalsi e sapientoni autoriferiti).
Il quadro è presto fatto, crescono la dispersione scolastica e la generazione Neet (Not – engaged – in education, employment or training, persone non impegnate nello studio né nel lavoro), le competenze linguistiche e matematiche degli adulti italiani sono tra le più basse dei paesi Ocse, oltre un terzo delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi giungono al compimento del loro ciclo di studi con gravi carenze in lettura, matematica e inglese in un paese sempre più divaricato tra nord e sud.
Il modo ci sarebbe per uscire da questa situazione: ripensare tutto il sistema dell’istruzione in chiave di apprendimento permanente e coinvolgere gli insegnanti a partire dalla loro formazione. Nessuna rivoluzione scolastica oggi può prescindere da queste condizioni. Nulla di particolarmente nuovo. È tempo, almeno venticinque anni, che a casa nostra, tra varie distrazioni, ce lo andiamo ripetendo. Ma nella continua inerzia.
Non servono più molti discorsi, ciò che è veramente necessario è cambiare l’idea novecentesca dell’istruzione, rivelatasi ormai ampiamente inadeguata e soprattutto convincersi che occorre puntare sulla selezione, sul protagonismo e sulla valorizzazione degli insegnanti, perché solo loro che lavorano dentro alla scuola la possono salvare.
Non c’è riforma che possa cambiare l’istruzione, se non la professionalità e la passione di chi ogni giorno incrocia gli occhi delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Insegnanti che di queste doti ne hanno da vendere ce ne sono in giro per le aule del nostro paese, basterebbe darsi da fare a cercarli, a riconoscerli e a chiedere il loro aiuto. Ma, per favore, evitiamo di lasciar sproloquiare i soliti soloni.
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Giovanni Fioravanti, l’autore di questo articolo, è stato docente di Filosofia, Psicologia e Scienze dell’Educazione presso licei e istituti superiori e dirigente scolastico. L’articolo di questa pagina è stato pubblicato anche su ferraraitalia.it e qui con il consenso dell’autore
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