La scuola, il governo, i concorsi, i ricorsi…

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di Maria Grazia Carnazzola, Educazione & Scuola, 29.8.2019

– “L’azione del Governo si arresta…”, così Giuseppe Conte nel suo discorso al Senato il 20 agosto 2019 nel corso del quale dichiara di rimettere il proprio mandato di Presidente del Consiglio. Nel discorso c’è stato posto anche per la scuola. “Ogni giovane che parte e non ritorna è una sconfitta per il nostro Paese” e ancora “…come imparare è più importante di cosa imparare, creando attitudine a migliorare le conoscenze.”   Già, il Governo si arresta e la Scuola, che nel nostro Paese non è mai in cima al pensiero dei politici, rimane in bilico tra concorsi ordinari e straordinari, aggiustamenti di aggiustamenti per l’inclusione, discorsi sulla meritocrazia, l’insegnamento obbligatorio dell’Educazione Civica, il monitoraggio – se mai lo si sta conducendo – sull’attuazione del Decreto 61/2017, sulla valutazione, degli apprendimenti, del servizio, dei Dirigenti Scolastici, sulla rendicontazione sociale…

Tutte cose che rimangono in sospeso. Ma la domanda è: da quanto tutto questo è in sospeso? Quanto le vicende della scuola dipendono dall’azione e dalla visione partitica di questo o di quel ministro, dalle mediazioni di questo o di quel governo, e quanto viene da lontano, da molto lontano? E quanto il mondo della scuola è responsabile di questa situazione?

Quello che viene maggiormente discusso e tiene banco nel dibattito sui media, è oggi la questione del reclutamento dei docenti, argomento senza dubbio centrale se si è convinti che c’è bisogno di una scuola che realizzi, ripensandolo, il cambiamento e non lo subisca, ispirata ai nuovi paradigmi culturali, sociali, psico-pedagogici, organizzativi. La qualità della formazione delle giovani generazioni dipende ancora molto dal sapere degli insegnanti, dalla loro cultura pedagogica, dalla loro professionalità che sono altro e di più del sapere disciplinare, indispensabile ma oggi quanto mai non sufficiente. Umberto Cerroni, molto tempo fa, sosteneva che la più grande minaccia sta diventando la “mezza cultura” e che l’unico rimedio per contrastarla e quello di alzare il livello generale dell’istruzione. Solo una cultura critica e diffusa può evitare una catastrofe culturale. C’è bisogno di ripensare strutturalmente la scuola e solo chi ci lavora può farlo, ma per farlo deve percepire l’urgenza e la necessità del cambiamento, riconoscendo e dando forma e significato ai problemi reali e curando la propria formazione iniziale e permanente.

La natura del problema.

Diceva Piaget che una scienza non si sviluppa se non in funzione dei bisogni e degli stimoli dell’ambiente sociale.  Accettando questa premessa, viene da sé che spetta alla Società indicare i fini dell’educazione delle giovani generazioni. E lo fa in due momenti: veicolando informalmente una visione del mondo, della famiglia, dei gruppi sociali, degli usi e delle consuetudini – anche attraverso i linguaggi-, cioè attraverso le pratiche che fondano e trasformano la Società stessa. E lo fa affidando allo Stato, e alle sue istituzioni, il compito formale di promuoverne i percorsi di sviluppo, tenendo conto delle relazioni esistenti tra la vita sociale e l’educazione, tra la scelta dei mezzi e il raggiungimento degli obiettivi. Da una parte, quindi, gli insegnanti, intesi come categoria sociale (reclutamento, strutture gerarchiche, visioni della professione …), dall’altra gli allievi, (la loro origine sociale, i livelli raggiunti, i disequilibri, le disomogeneità…).

Secondo Piaget, sono i problemi relativi alla popolazione scolastica quelli a cui sarebbe da riservare la massima attenzione. Ma si ha l’impressione che non sempre sia così. Pare, sottolineo pare, che l’azione dei governi che si sono succeduti negli ultimi tempi, abbiano come obiettivo prioritario quello della soluzione del problema del precariato, attraverso una serie di misure non sempre condivisibili sul piano etico. Fine nobile, ma che non può essere perseguito a discapito della qualità dell’insegnamento. Non sottovaluto né intendo negare il problema della mancanza di sicurezza che l’assenza di un lavoro stabile può generare e genera: la precarietà contrae il tessuto sociale e lo lacera e nel nostro Paese è diventata il più drammatico dei problemi a livello sociale, economico, culturale, valoriale e politico.

Ma, se nonostante tutto la qualità della formazione delle giovani generazioni dipende ancora in larga misura dagli insegnanti, dalla qualità del loro sapere, dalla loro sensibilità psicopedagogica, dalla loro competenza disciplinare, viene da chiedersi se l’immissione nei ruoli di docente a seguito di simi l- concorsi o di ricorsi, vada in questa direzione. Se è vero che la scuola ha ancora un ruolo fondamentale, occorre che gli insegnanti dispongano degli strumenti culturali per poter essere attori e costruttori del contesto in cui operano, presupposto per il riconoscimento sociale, personale e delle istituzioni, anche dell’istituzione scolastica. Sono gli insegnanti che tentano di trasmettere conoscenze, di promuovere competenze, di modellare i valori sulla realtà esistenziale delle giovani generazioni, a cercare di educarle alla verifica di nuovi valori o presunti tali. La famiglia, spesso, è alla ricerca di una nuova fisionomia e di nuovi linguaggi che permettano a genitori e figli di comunicare, magari con un fraintendimento piuttosto che con un silenzio. È rimasta la scuola, sono rimasti i docenti che non sono missionari, ma professionisti la cui professionalità va riconosciuta. Ma chi garantisce la promozione istituzionale di quegli strumenti professionali necessari ad evitare la trappola della semplificazione del complesso? Le strade principali sono due: la modalità di reclutamento, per aprire o sbarrare l’accesso a chi manca dei requisiti, e la formazione continua e strutturale in servizio. Solo così, ritengo, sarà possibile la costruzione di una solida identità professionale docente, valutata e riconosciuta dal contesto   sulla base di chiari indicatori di professionalità, di codificate norme sociali e di sistemi valoriali di riferimento. Dewey riteneva che l’eticità delle istituzioni, e dei costumi, fosse fondamentale per la realizzazione della libertà e della democrazia, nel senso di cultura e di etica prima ancora che di regime costituzionale. L’esercizio della cittadinanza attiva postula l’informazione sugli eventi e sulle manifestazioni mondiali e, parallelamente, la costruzione di strumenti per interagire attivamente con i media che filtrano e modellano la realtà, sostenendo l’accesso al sapere con solidi criteri di analisi, di discriminazione, di selezione e di elaborazione, cioè da uno strutturato pensiero critico. “Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze” sosteneva W. Thomas, e questo la dice lunga. Solo la scuola può promuovere la consapevolezza della natura della conoscenza, della specificità dei saperi formali e dei diversi valori di verità che veicolano.

I concorsi, il merito, la costituzione.

L’articolo 97 della Costituzione recita “…Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge…”. La scuola è parte della Pubblica Amministrazione, quindi le procedure di selezione del personale tutto, compresi i docenti, dovrebbero rispondere al dettato costituzionale. E il concorso consiste nella valutazione obiettiva del merito dei candidati. L’atto conclusivo è la graduatoria che elenca gli idonei in ordine al merito.  Il merito, si evince, viene indicato come un valore fondamentale per la selezione delle professionalità, fondata sulla valutazione, da effettuare per la promozione di una scuola di qualità. Il merito, cioè, deve continuare ad essere un valore fondamentale, ma deve essere riconosciuto da altri, non può essere mera convinzione personale che, o è presunzione o è millantato credito.  Urge un sistema organico di valutazione, in ingresso e in itinere, per dirigenti, docenti, personale ATA che introduca chiari indicatori di produttività e di qualità, collegato a una rendicontazione “oggettiva” e verificabile in grado di far emergere le responsabilità e, conseguentemente, il merito o il demerito di ciascuno. Non è un discorso sterile, se si considera che in un sistema scolastico dove manca una vera cultura della valutazione, che non si limiti alla valutazione degli apprendimenti, il fenomeno della dispersione non è un dato patologico ma fisiologico. “L’eccellenza” deve essere normale, ordinaria; il merito, nel senso dell’impegno e della responsabilità personale, professionale e sociale, diffuso e preteso. Quello del reclutamento dei docenti, ma anche dei dirigenti, è un problema complesso che richiede risposte articolate che considerino la necessità di costruire professionalità forti, figure esperte in grado di agire pratiche didattiche utili a generare livelli adeguati di dissonanza cognitiva, relazionale, culturale per significare le discipline di insegnamento, contribuendo a dare senso all’apprendimento attraverso la condivisione critica di esperienze e di riflessioni.

La domanda di formazione, e di quale formazione, appartiene alla società e alla società deve tornare la risposta.  Educare alla complessità, al pensiero critico, alla responsabilità delle scelte …in altre parole educare alla cittadinanza attiva. Intendo qui per cittadinanza una condizione giuridicamente definita, un sistema di comportamenti fondati sul rispetto di sé e degli altri, e delle regole della comunità, per un corretto sistema di relazioni. E in questo il concetto si avvicina molto a quello di Educazione civica. La cittadinanza attiva è qualcosa di più: è un atteggiamento culturale che porta con sé costrutti come impegno civile, politico, e dimensioni etiche che implicano la convinzione che senza scelta e responsabilità non ci può essere giustizia sociale. La cittadinanza attiva (e qui condivido la posizione dell’amico Maurizio Tiriticco) è senso di appartenenza ed esercizio di democrazia e la democrazia diventa il risultato della contrapposizione, prima, e della mediazione poi. Questo dovrebbe fare la scuola pubblica, utilizzando la ricchezza culturale che le deriva dal suo pluralismo.

Ma lo possono fare docenti competenti, formati, disponibili al confronto, che sappiano smontare e rimontare i saperi disciplinari in modo epistemologicamente corretto. Dei bravi insegnanti. E per fare un bravo insegnante, sosteneva Claparède, ci vogliono almeno 10 anni di lavoro monitorato.

La scuola, i docenti…

Questa nostro è il tempo della complessità e chi dentro la scuola ci lavora, ha la sensazione di essere in un permanente cantiere aperto, dove si susseguono le richieste, a volte le stesse richieste con parole nuove. Ma la ripetizione del già detto ingenera confusione, sia essa disorientamento o convinzione di essere già allineati con le richieste. Le parole ripetute non generano cambiamenti, ma l’impressione di sapere già, di avere già fatto. Le parole troppo usate diventano frustre, diventano slogan, gli slogan che fanno pensare che chiunque possa insegnare, basta averci provato, un anno, due anni, senza valutazione alcuna e a volte formazione alcuna.  Senza significati condivisi non è possibile trovare il senso delle intenzioni e delle riflessioni comuni. Basti pensare ai fraintendimenti che ha generato il parlare e riparlare di cittadinanza attiva, trasformata in un obiettivo aggiuntivo, in una “materia” e non nella costruzione di un abito mentale, un principio ispiratore che orienta l’intero curricolo. A insegnare si può imparare, ma ci vogliono la voglia e la possibilità di farlo. Quindi, la scuola come luogo etico di formazione e di cittadinanza, prima che come collocazione di lavoro per il personale. Su questo anche il mondo sindacale dovrebbe fare una seria riflessione. Gli arruolamenti di massa, senza valutare la cultura e le competenze didattiche possedute, determinano inevitabilmente un livellamento verso il basso e la conseguente perdita di prestigio dell’insegnante, la messa in ombra dei contenuti culturali e della professionalità, nonostante la passione e l’impegno di molti docenti preparati. La scuola è un servizio pubblico   e come tale dovrebbe stare dentro un progetto politico che si raccorda con un sistema giuridico e si esplicita in un impianto organizzativo. Non bastano le innovazioni tecniche e le tecnologie (pure importanti), le idee di moda: c’è di mezzo il futuro.

C’è, quindi, bisogno di una scuola che delinei il cambiamento – ispirata ai nuovi paradigmi culturali, sociali, psico-pedagogici, organizzativi – e di nuovi strumenti operativi per sfidare e contrastare “la tendenza all’iperspecializzazione, da un lato, e il rischio di una formazione generica e astratta dall’altro” (Riordino scuola secondaria 2010). Questo lo possono fare professionalità dedicate e competenti, che sappiano tenere insieme le richieste di innovazione con le radici storico-culturali. Proprio quelle professionalità declinate nell’art. 27 del CCNL, Comparto Istruzione Ricerca 2016/2018 “Il profilo professionale dei docenti è costituito da competenze disciplinari, informatiche, linguistiche, psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali, di orientamento e di ricerca, documentazione e valutazione tra loro correlate e interagenti…”.  Torna così in primo piano il problema del reclutamento: bisognerà decidere cosa andare a valutare e, una volta deciso, posizionare l’assicella della selezione molto in alto: i ragazzi hanno diritto a una scuola di qualità, a docenti padroni del sapere e del saper fare che possano essere esempio di comportamenti deontologici eticamente orientati, perché la correttezza, il rispetto e la responsabilità non si insegnano a parole. L’educazione non è un “evento” a sé stante, non è culturalmente indipendente e, quindi, non può essere progettata e gestita come se lo fosse. Esiste e vive dentro un progetto politico e dentro una cultura. I sistemi simbolici proprio di “quella cultura”, i valori o i disvalori che connotano il clima educativo di “quella” scuola determinano il modo in cui la capacità della mente si sviluppano e vengono utilizzate. Per questo conta moltissimo come i giovani vivono la loro scuola e la posizione che la scuola assume nella loro cultura. E questo vale ancora prima per i docenti e per i dirigenti.


U. Cerroni, La cultura della democrazia, Métis, Bari 1991;

N. Postman, Ecologia dei media, Armando Editore, Roma 1981;

J. Dewey, Democrazia ed educazione, Anicia, Roma 2017;

J. Piaget, Psicologia e pedagogia, Loscher, Torino 1970;

 La Costituzione della Repubblica Italiana.

E. Claparède. La scuola su misura, La Nuova Italia, 1971

CCNL, Comparto Istruzione e Ricerca 2016/18

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La scuola, il governo, i concorsi, i ricorsi… ultima modifica: 2019-08-29T21:44:36+02:00 da
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