di Dario Di Vico, Il Corriere della sera, 14.10.2017
– La classe operaia è cambiata. L’impressione è però che di questo mutamento i giovani sappiano poco o niente e la figura dell’operaio sia assimilata tout court al lavoro manuale o peggio allo «sfruttamento»
Alla fine degli anni ‘70 il metalmeccanico era una figura quasi mitologica. Lo studente che andava in corteo cercava di seguirne l’esempio, spesso si recava davanti ai cancelli della fabbrica per condividere con lui il momento magico del picchetto e della cacciata dei crumiri. In sostanza ne riconosceva e invocava la funzione di «guida». Al punto che diversi militanti della sinistra extraparlamentare vollero provare direttamente l’esperienza di lavoro alla catena di montaggio per conoscere da vicino il meccanismo di funzionamento quotidiano del capitalismo per incamerare conoscenze e far propria la cosiddetta «condizione operaia». Poi arrivò anche il cinema e Giancarlo Giannini con la regia di Lina Wertmuller scolpì il suo indimenticabile «Mimì metallurgico». Ai giorni nostri, con la Grande Crisi alle spalle e i mille dilemmi sulla globalizzazione che avanza o che arretra, per gli studenti — almeno per quella minoranza che venerdì ha manifestato in 70 città d’Italia — l’operaio non è più quel punto di riferimento di tanti anni fa. È cambiato quasi tutto e di classi operaie non ce n’è più una, indossando la tuta si può essere tecnici del 4.0, addetti alle linee di montaggio oppure facchini della logistica. Tre lavori assai diversi tra loro. L’impressione è però che di questo mutamento i giovani sappiano poco o niente e la figura dell’operaio sia assimilata tout court al lavoro manuale o peggio allo «sfruttamento». E da qui partono tutti gli equivoci della via italiana all’alternanza studio-lavoro, errori che potremmo sintetizzare con questa espressione: come raccontare male ai giovani cos’è oggi il mondo della produzione e come volendoli attrarre siamo riusciti ad allontanarli.
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