di Mauro Piras, insegnante, Internazionale 7.5.2015
Che cosa serve alla scuola italiana? Per rispondere a questa domanda si possono adottare due prospettive: quella di una “vera riforma”, o quella dei “prerequisiti di una riforma”.
Dal primo punto di vista, si potrebbe dire: alla scuola italiana serve una rivoluzione della didattica nella secondaria, di primo e secondo grado, e quindi una maggiore unità del percorso dell’obbligo, la ristrutturazione dei cicli, l’alleggerimento dei programmi, una didattica più attiva, meno “estensiva” e più “intensiva”, il ripensamento (e forse l’abolizione) del gruppo classe e delle bocciature, una maggiore permeabilità degli indirizzi.
E ancora: lo sviluppo di una istruzione tecnica superiore e di una istruzione degli adulti degne di questo nome. Il problema dell’istruzione italiana è infatti la sua incapacità di garantire livelli di apprendimento decenti e diffusi, rivelata dai dati allarmanti sulla dispersione scolastica (soprattutto nel biennio delle superiori), sulle competenze degli studenti italiani nei test internazionali, sul grado di analfabetismo funzionale nella popolazione. Di queste cose dovremmo discutere per mettere in cantiere una vera riforma della scuola.
Tuttavia, la scuola italiana ha anche problemi strutturali che precedono la scelta tra un modello di didattica e un altro. Da qui nasce la possibilità, anzi, l’urgenza di rispondere a quella domanda innanzitutto nel secondo senso: quali prerequisiti strutturali bisogna garantire alla scuola italiana, per mettere in cantiere, in seguito, una riforma della didattica?
Centralismo soffocante
La risposta, credo sia questa: la scuola italiana ha bisogno di docenti ben formati e ben selezionati in ingresso; di un corpo docente motivato e di qualità, sostenuto da una buona formazione in servizio e valutato regolarmente; di una organizzazione più flessibile, che garantisca la continuità didattica dei docenti sulle cattedre, e dia più autonomia e responsabilità alla singole scuole.
Questi sono i punti in cui abbiamo le maggiori debolezze. I docenti della scuola italiana sono stati reclutati nei modi più vari, non tutti per concorso o con selezioni accurate; il meccanismo dei concorsi come forma di reclutamento regolare è inceppato, il percorso di formazione in ingresso (il tirocinio formativo attivo) è arrivato al secondo ciclo in mezzo a mille difficoltà e inefficienze.
La formazione in servizio è demandata alla buona volontà del singolo docente. Il lavoro dei docenti non è valutato in nessun modo, le classi restano luoghi chiusi in cui ognuno fa più o meno quello che vuole. Chi lavora bene e con impegno ha lo stesso riconoscimento economico, istituzionale e sociale di chi fa poco o niente.
Infine, la scuola è soffocata dal centralismo, soprattutto nell’assegnazione del personale alle scuole: tutte le famiglie sanno che spesso i docenti dei loro figli cambiano, anche più di una volta all’anno.
Perché? Perché una parte consistente del personale è precario ed essendo assegnato alla scuole sulla base di graduatorie, spesso non è riassegnato alla stessa scuola; perché le graduatorie sono periodicamente rifatte, e questo modifica le assegnazioni; perché la nomina per via ministeriale è lenta, e spesso, prima dell’assegnazione definitiva da parte del provveditorato, il preside nomina provvisoriamente un docente, che viene sostituito appena si fa la nomina definitiva.
E poi perché c’è la distinzione tra organico di diritto e organico di fatto: il primo è l’organico definito sulla base del numero di cattedre calcolate a partire dal numero di alunni; il secondo è l’organico ricalcolato dopo aver tenuto conto degli spezzoni, di chi lascia temporaneamente la scuola per un distacco o un comando o una assegnazione provvisoria, dei part-time eccetera.
Le cattedre di fatto cambiano di anno in anno, e quindi il personale cambia perché è assegnato sulla base della graduatoria, non del fatto che abbia o meno già lavorato in una certa scuola o in una certa classe. Tutto questo spiega un tratto tipico della scuola italiana: l’instabilità dei docenti e la frequente discontinuità didattica.
Insomma, la scuola italiana ha bisogno di interventi sul piano strutturale e organizzativo. Questi non sarebbero una vera riforma, ma permetterebbero di eliminare quei “colli di bottiglia” che la ostacolano. Il “disegno di legge di riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione” (ddl 2994 della camera dei deputati) proposto dal governo va giudicato a partire da questi presupposti. Non è una “vera riforma” della scuola; è una serie di interventi che affrontano problemi di struttura e di organizzazione. Diciamo che risponde alla mia domanda iniziale in base alla seconda prospettiva .
Che valutazione se ne può dare, al di fuori delle contrapposizioni esasperate acui si è assistito nei giorni passati? Lo sciopero della scuola del 5 maggio è stato un enorme successo, e questo ovviamente denuncia un grave problema. Tuttavia, i dettagli dell’intervento vanno visti con attenzione, perché se si bloccasse questo disegno di legge, come chiedono gli oppositori più decisi, la scuola italiana perderebbe un’altra occasione.
Il mondo dei precari tra scorrimenti, graduatorie, immissioni
Il punto più discusso è l’assunzione dei precari della scuola. Il governo prevede di assumere tutti i precari iscritti nella graduatorie a esaurimento (Gae), quelle graduatorie cioè che accolgono solo docenti già abilitati prima di una certa data, e che danno diritto all’immissione in ruolo senza concorso, ma per scorrimento della graduatoria.
Si calcola che alle Gae siano iscritti, adesso, circa 130mila docenti. Il governo ne assumerebbe subito più di centomila, mentre altri 23mila dovrebbero essere i docenti della scuola dell’infanzia, che sarebbero assunti solo dopo l’approvazione della riforma del ciclo 0-6 anni, prevista nelle deleghe del ddl. Le cifre non tornano esattamente, ma più o meno ci siamo: la Gae sarebbero svuotate e chiuse. Inoltre, il governo prevede di bandire immediatamente un concorso per altri 60mila posti di ruolo.
Tutti i docenti precari così verrebbero assunti? Come si sa dalle proteste di una parte dei precari “esclusi”, non è così. È stato calcolato che attualmente, nella scuola italiana, lavorano circa 136mila precari su cattedre annuali. La cifra non si sovrappone a quella delle Gae, pur simile, perché di questi 136mila una parte (58mila) viene dalle Gae, e un’altra (78mila) dalle graduatorie di istituto di seconda fascia, cioè quelle degli abilitati non inseriti nelle Gae perché hanno ottenuto l’abilitazione dopo che sono state chiuse. Il governo intende assumere dalle Gae i primi, ma non i secondi.
Il resto delle assunzioni previste dal governo riguarda quei docenti che si trovano nelle Gae ma non lavorano su cattedre annuali, lavorano per periodi più brevi o non lavorano affatto. Invece, c’è una parte del personale precario che lavora su cattedre annuali perché le classi di concorso su cui lavora sono esaurite nelle Gae. Il governo prevede di mettere a concorso i posti di questo ultimo tipo (circa 60mila).
Il problema e le proteste nascono da questi due tipi di precari: quelli inseriti nelle Gae sarebbero assunti, e quelli delle altre graduatorie no. Tuttavia, spesso lavorano nelle stesse condizioni, cioè sono precari su cattedre annuali da diversi anni; o addirittura gli esclusi dal piano di assunzioni lavorano regolarmente nella scuola mentre una parte del personale delle Gae lavora irregolarmente o non lavora affatto.
La scelta del governo è giustificata dall’intento di eliminare le Gae, che sono un mostro giuridico perché garantiscono l’accesso al ruolo senza concorso, e di permettere così, in seguito, l’immissione in ruolo solo per concorso. Infatti, gli iscritti nelle graduatorie di seconda fascia sono entrati con un regime normativo che prevede solo il concorso per accedere al ruolo. Giuridicamente la decisione è sensata, sul piano sostanziale si pongono molti problemi, per la disparità di trattamento di situazioni simili.
Tuttavia, questa è probabilmente la decisione migliore. Riprendiamo il nostro punto iniziale. La scuola ha bisogno di docenti ben formati e ben selezionati. L’infornata di centomila precari senza concorso non risponde a questa esigenza, si dirà. Alla lettera no, certo.
Però si può tornare a una dinamica normale di reclutamento per concorso solo abolendo le Gae, e questo può essere fatto solo svuotandole. Quindi questa è una decisione di emergenza, presa una volta per tutte, che dovrebbe permettere poi di ristabilire la normalità. Assumere tutti i precari con oltre 36 mesi di servizio, delle Gae e no, come chiedono i sindacati, non sarebbe un favore fatto alla scuola, perché porterebbe a un blocco dei concorsi per molto tempo.
Coerentemente, infatti, i sindacati chiedono di rimandare il concorso. Ma questo è proprio il punto da rifiutare con fermezza: una volta chiusa l’anomalia delle Gae, il concorso deve essere l’unica via di accesso al ruolo, altrimenti non risolveremo mai nessun problema della scuola.
Altri due punti tra i più discussi del ddl di riforma della scuola sono l’“organico dell’autonomia” e il rafforzamento dei poteri dei dirigenti scolastici (Ds).
Il primo prevede che ogni scuola programmi la sua attività con un piano triennale dell’offerta formativa, che definisce il fabbisogno di organico. L’organico di ogni scuola sarà composto in parte da docenti con titolarità di istituto, e in parte da un certo numero (in media intorno all’8 per cento) di docenti titolari su base territoriale, che risponderanno alle esigenze definite dalla scuola nel piano e avranno un incarico triennale, rinnovabile. I docenti del secondo tipo sono collocati in albi territoriali, dai quali sono scelti dalle scuole sulla base di una “proposta” del dirigente scolastico.
Il principio è che la scuola sceglie i docenti di cui ha bisogno a partire dal suo piano triennale. Ciò varrebbe però solo per i docenti degli albi territoriali. Chi sono questi docenti? I neo immessi in ruolo con il piano straordinario di assunzioni, ma non tutti. Come detto sopra, il piano di assunzioni prevede circa centomila immissioni in ruolo. Di questi, circa 50mila dovrebbero andare su posti detti “vacanti e disponibili”, cioè su posti annuali già esistenti. Questo primo gruppo sarebbe assunto nel modo ordinario, con assegnazione alle cattedre per graduatorie. I circa 50mila in più, invece, non corrisponderanno a posti già esistenti.
Quindi la riforma prevede di utilizzarli per “allargare” l’organico di ogni scuola. Poiché però non corrispondono a posti già definiti, e poiché si vuole superare definitivamente la distinzione tra organico di diritto e di fatto, essi resteranno titolari sugli albi territoriali, in modo da garantire una adeguata flessibilità nella assegnazione alle scuole. Sostanzialmente si creerebbe un sistema con un doppio tipo di personale: i docenti titolari sulla singola scuola e quelli titolari sull’albo territoriale.
La riforma cerca di spostare il sistema scolastico italiano da una organizzazione in cui l’assegnazione dei docenti è definita dall’alto per via burocratica a un’altra in cui i dirigenti scolastici selezionano i loro docenti
Questa divisione permette di gestire la flessibilità necessaria al sistema, ma è certamente meno grave di quella attuale, che è tra docenti di ruolo e docenti precari, con una instabilità annuale, se non più breve.
La questione però non si chiude qui. La riforma non si limita a creare questo tipo di doppio organico. Questo infatti non sarebbe un problema grave, se la titolarità negli albi territoriali fosse concepita come provvisoria, per i nuovi assunti (non solo adesso, ma anche in futuro), che poi sarebbero riassorbiti sulla titolarità di scuola. Il ddl prevede invece che finiscano negli albi territoriali anche i docenti che fanno domanda di trasferimento.
Inoltre, se i docenti neoassunti restano negli albi territoriali in modo permanente, con il passare del tempo, tramite le nuove assunzioni e le domande di trasferimento, gli albi territoriali potrebbero diventare la norma. Questa prospettiva è coerente con l’altro aspetto fondamentale della riforma, forse il più contestato: l’aumento del potere dei dirigenti scolastici e soprattutto la facoltà loro accordata di scegliere i docenti negli albi. Sostanzialmente, la riforma cerca di spostare il sistema scolastico italiano da una organizzazione in cui l’assegnazione dei docenti alle scuole è definita dall’alto per via burocratica a un’altra in cui i dirigenti scolastici selezionano i loro docenti.
Più flessibile e più autonoma
Torniamo al nostro punto di vista iniziale. Abbiamo detto che la scuola italiana ha bisogno di una organizzazione più flessibile, che garantisca la continuità didattica e dia più autonomia e responsabilità alle scuole; e che serve un sistema di valutazione del lavoro dei docenti. I piani triennali e l’organico dell’autonomia, con l’abolizione della distinzione tra organico di diritto e di fatto, rispondono alla prima esigenza. Anche la possibilità data alle scuole di scegliere i docenti va in questo senso, perché l’assegnazione non dipende da graduatorie che operano meccanicamente, ma dal piano triennale deciso dalla scuola stessa.
Per quanto questo riguardi una parte limitata del personale, è proprio quel margine che permette di rendere l’organico flessibile, adattabile alle esigenze della scuola, senza costringere a continui spostamenti di cattedra o addirittura di sede.
Sul terreno della valutazione dei docenti le cose stanno diversamente. Qui si è prodotto un cortocircuito. La prima versione della Buona scuola prevedeva la creazione di un sistema di valutazione e di premialità per i docenti. Questo sistema è stato molto contestato; inoltre, era impossibile realizzarlo, a parità di livelli stipendiali, senza provocare un abbassamento degli stipendi di chi non avrebbe ricevuto i premi. Quindi è stato abbandonato. Su questo punto, il ddl in discussione prevede solo la possibilità di attribuire dei premi ai docenti migliori, con 200 milioni aggiuntivi stanziati per tutto il sistema di istruzione (poco più di ventimila euro a scuola). Chi e come attribuirà questi premi lo decideranno gli emendamenti. Il problema non è questo.
Il problema è che una volta ridimensionata la valutazione in questi termini, il governo ha spostato la partita sui dirigenti scolastici. Ha puntato cioè su un aumento dei poteri dei dirigenti scolastici nel selezionare i docenti, che potesse servire da stimolo al miglioramento del loro lavoro. Se il dirigente scolastico può scegliere liberamente i docenti dagli albi, allora tutti saranno spinti a fare il meglio per essere scelti dai dirigenti delle scuole più ambite. Si punta cioè, invece che sulla valutazione o sulla carriera, sulla competizione tra docenti e scuole per innalzare la qualità dell’insegnamento.
Questo, però, è un cortocircuito che andava evitato. Le due questioni vanno separate. Da un lato ci sono i problemi organizzativi, dall’altro c’è la questione della valutazione e della “carriera” dei docenti. Confonderli ha favorito l’inasprimento dello scontro sulla riforma. L’Italia non può passare in un colpo solo da una gestione gerarchica per via ministeriale, determinata solo dalle graduatorie, a un sistema competitivo così estremo. Se questo passaggio può servire per assumere dei precari che altrimenti non avrebbero un posto, per unificare organico di diritto e di fatto, e in generale per rendere più elastica l’attribuzione dell’organico, deve essere limitato agli aspetti che servono a ciò.
Se si vuole passare a un sistema di chiamata diretta, bisogna discuterne esplicitamente, in quanto tale. Ma per farlo ci vuole tempo. Si dovrebbe aprire una discussione su questi due punti: quanto aiuta la libertà dei dirigenti scolastici e delle scuole nello scegliere i docenti? Come si possono pensare la valutazione e la “carriera” dei docenti? Trasformazioni così radicali non si possono fare in poche settimane, improvvisando.
In poche settimane si può fare qualcosa di meno ambizioso, ma di più condiviso.
I piani triennali e gli albi territoriali rispondono alle esigenze organizzative della scuola, permettendo di realizzare un organico funzionale dell’autonomia. Vanno mantenuti e articolati in modo che non generino forme di precarizzazione latente. Il passaggio per gli albi territoriali dovrebbe essere concepito come una transizione che riguarda, non solo adesso, ma anche in futuro, i docenti neoimmessi in ruolo, che poi, progressivamente, assumono la titolarità di istituto.
Si può fare in modo che la richiesta dei docenti e quella delle scuole si incontrino
L’assegnazione dei docenti degli albi alle scuole, invece, può essere pensata in due modi. Si può scegliere il metodo attuale, cioè per graduatoria e nomina da parte dell’ufficio scolastico territoriale del ministero. Questo potrebbe portare degli svantaggi dal punto di vista della corrispondenza tra le esigenze della scuola e le effettive competenze del docente; tuttavia non dovrebbe più generare l’instabilità che vediamo oggi, perché l’assegnazione sarebbe triennale.
Ma se ci si basa solo sulle graduatorie, l’instabilità potrebbe riemergere alla fine del triennio: un docente che ha lavorato bene in una scuola e che la scuola non vuole perdere potrebbe essere costretto a cambiare sede se superato in graduatoria da un altro. Allora, in realtà, se si lascia la scelta alla scuola si può garantire una maggiore stabilità: se infatti il lavoro del docente è coerente con quello di cui ha bisogno la scuola, il docente potrebbe essere confermato dalla scuola stessa. Ecco perché credo che sia una buona idea lasciare alle scuole la decisione sull’assegnazione di questo personale, aumentando la loro autonomia.
Questo sistema, però, non va pensato come un meccanismo competitivo che dovrebbe fare da supplenza a un sistema di valutazione che manca. La valutazione va pensata e istituzionalizzata a parte. Quindi non è necessario che la scelta sia in capo al dirigente scolastico. Si può fare in modo che la richiesta dei docenti e quella delle scuole si incontrino. In questo senso sembrano interessanti gli emendamenti di cui si sta discutendo in questi giorni, dopo lo sciopero del 5 maggio: secondo uno di questi, i docenti potrebbero avanzare le loro candidature per dei posti proposti dalla scuola e essere selezionati per titoli e colloquio da una commissione interna alla scuola stessa.