di Daniela Vuri, La Voce.info, 14.8.2018
Sostenibilità del sistema in dubbio
Tra il 2008 ed il 2017 la crisi economica e finanziaria ha ridotto sensibilmente la crescita reale del prodotto dell’economia italiana. Il costo del rallentamento sugli importi delle pensioni future, calcolate con la regola contributiva, potrebbe portare a riduzioni non trascurabili rispetto a quanto atteso al momento dell’introduzione del nuovo regime nel 1995.
Nel corso del 2018 varie organizzazioni nazionali e internazionali, dalla Ragioneria generale dello stato al Fondo monetario, alla Commissione europea, hanno rivisto al ribasso le prospettive di crescita di lungo periodo dell’economia italiana. Se gli scenari più pessimisti si realizzassero, la sostenibilità del sistema pensionistico tornerebbe in discussione e il rapporto tra spesa per pensioni e Pil potrebbe aumentare tra i 2 e i 6 punti percentuali rispetto ai valori previsti nelle proiezioni formulate nel corso del 2015.
In ogni caso, quindi, una crescita economica più bassa rispetto a quella immaginata nel 1995, nel momento dell’introduzione del sistema contributivo, mette in discussione l’adeguatezza delle prestazioni, la sostenibilità finanziaria e la capacità del sistema di reagire agli shock economici e finanziari. Un po’ paradossalmente quindi un metodo di calcolo delle pensioni introdotto più di venti anni orsono che, a causa di una transizione scandalosamente lunga, inizia solo in questi anni ad esercitare effetti finanziari, necessiterebbe di interventi strutturali per funzionare adeguatamente e per essere tenuto lontano dagli appetiti della politica.
Le dichiarazioni dell’esecutivo sul “fronte previdenziale” della prossima manovra finanziaria non si occupano di queste tematiche. A quanto sembra, gli interventi cardine dell’azione di governo saranno tre: la quota 100, la pensione di cittadinanza e, con un altro apposito provvedimento, il taglio delle pensioni d’oro. Nessuna di queste misure sembra avere il respiro di lungo termine, che invece bene si adatterebbe a un esecutivo che si trova all’inizio del suo operato e che ha a cuore l’interesse delle generazioni più giovani. Si tratta di un atteggiamento che trova spiegazioni in ragioni legate alla ricerca del consenso, un elemento che avvicina pericolosamente le azioni annunciate dall’“esecutivo del cambiamento” a quelle di molti che lo hanno preceduto.
Quota 100
Tra i tre interventi annunciati è il primo quello che, almeno nel breve periodo, potrebbe generare qualche effetto apprezzabile sull’economia reale, seppure a costo di aumentare da subitola spesa per pensioni. L’incremento repentino delle condizioni per l’accesso alla pensione di vecchiaia e anzianità, previsto dalla riforma Fornero alla fine del 2011, ha mostrato in questi anni molti punti critici. Se da un lato ha permesso al governo di allora di disegnare un sentiero di aggiustamento virtuoso della finanza pubblica, grazie ai cospicui risparmi che con esso si realizzavano, dall’altro ha generato nove interventi di salvaguardia a favore degli “esodati”, i cui effetti finanziari e distributivi meriterebbero maggiore attenzione. A ciò si aggiunge il dubbio che interventi draconiani sul sistema delle uscite dal mercato del lavoro in una fase di crescita ridotta o addirittura di recessione possano avere effetti contro produttivi. Al tempo stesso, proprio le deroghe concesse con le salvaguardie e il mantenimento di condizioni particolari di esenzione per altre categorie di lavoratori hanno contenuto la crescita dell’età effettiva di pensionamento intorno ai 63 anni, contro un’età legale di circa 3 anni e mezzo più alta.
La proposta di rendere possibile l’uscita per pensionamento con una somma di età e contribuzione pari a 100 deve però ancora essere declinata con precisione nella sua composizione. La combinazione iniziale prevedeva 64 (età) +36 (contribuzione), ora la Lega, per bocca del ministro Salvini, propone di arrivare a quota 100 attraverso 62 (età) + 38 (contributi). Si tratta di una scelta delicata, soprattutto per l’impatto immediato che potrebbe comportare sui saldi di bilancio pubblico.
In generale, tuttavia, l’individuazione di un canale “ragionevole” di uscita dal mercato del lavoro da parte degli occupati più anziani e con carriere piene, soprattutto se accompagnato da un riordino complessivo della normativa ed eventualmente da correttivi finanziari che tengano in considerazione il costo dell’anticipo, potrebbe rappresentare una soluzione sostenibile dal punto di vista finanziario e sociale.
Pensione di cittadinanza
Di altro tenore la proposta di introdurre la “pensione di cittadinanza”, ovvero di portare la pensione (o meglio il reddito pensionistico inteso come somma delle pensioni possedute dal pensionato) a 780 euro mensili. Intesa come declinazione del reddito di cittadinanza per la parte anziana della popolazione, la proposta sceglie di destinare una parte delle risorse finanziarie – presumibilmente scarse – della legge di bilancio a una componente della societàche meno di altre, per fortuna, è colpita dal fenomeno della povertà. L’unica peraltro in Italia che già dispone di un sistema di contrasto alla povertà sostanzialmente universale, garantito dal sistema delle maggiorazioni sociali rafforzate prima dal governo Prodi e poi da quello Berlusconi (il famoso “milione al mese”). Anche in questo caso, il costo dell’operazione potrebbe non essere marginale.
Taglio alle pensioni d’oro
Quanto alle “pensioni d’oro”, se ne è discusso molto, anche su questo sito (tipo qui e qui). Dei tre provvedimenti è quello che probabilmente comporterà il minore effetto finanziario. Al di là dei possibili rischi di incostituzionalità di un provvedimento di ricalcolo delle prestazioni in essere e delle difficoltà nel disporre di tutte le informazioni necessarie per renderlo possibile e affidabile, il tema centrale è capire a quale criterio di equità l’esecutivo si riferisce quando afferma di voler ridurre l’importo delle prestazioni più alte.
Due sembrano essere quelli maggiormente in voga per determinare l’importo del taglio: l’equità attuariale – ovvero “ricevi sotto forma di pensioni tanto quanto hai versato come contributi nel corso della tua vita attiva” – o l’equità verticale – ovvero “paghi di più perché hai un reddito più alto”. Se si applicasse il primo criterio, si rischia di ottenere ben poche risorse: molti pensionati d’oro sono rimasti a lungo sul mercato del lavoro e il sistema retributivo con cui la loro pensione è stata calcolata era una regola che già ha penalizzato l’importo delle pensioni dei soggetti con reddito alto. Non solo: se l’equità è attuariale allora perché non applicare il taglio a tutti i pensionati di anzianità dei decenni passati, senza vincoli di reddito? Se il concetto prevalente fosse invece il secondo, allora non si capisce perché colpire solo i redditi degli anziani e non tutti i redditi. A meno che il taglio ai pensionati d’oro non debba essere inteso come una punizione postdatata per aver goduto in passato di posizioni di privilegio sul mercato del lavoro.
In sintesi la “riforma della riforma Fornero” tanto sbandierata nei programmi elettorali delle forze attualmente al governo rischia di rivelarsi una somma di interventi tra loro scoordinati e senza un vero e complessivo disegno. In un contesto di risorse finanziarie scarse, le due forze politiche che guidano l’esecutivo sembrano più interessate a massimizzare gli interessi di breve periodo del loro elettorato di riferimento piuttosto che a guardare ad interventi capaci di tenere in considerazione anche il benessere di coloro, i giovani lavoratori di oggi, che in pensione ci andranno tra qualche decennio.
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