I 500 euro sono come i voti: nessuno pensava possibile la loro (re)introduzione, ma quando è avvenuta (quasi) tutti gli insegnanti hanno tirato un sospiro di sollievo: li usavano già (magari un po’ di nascosto), non sapevano giudicare altrimenti, sono molto meno impegnativi della valutazione. I voti erano/sono coerenti con il modello ideologico politico istituzionale del governo (di allora/Berlusconi-Gelmini di oggi/Renzi-Giannini). I 500 euro anche: materializzano l’idea dell’insegnamento come professione autonoma e della meritocrazia come competizione individualistica. Sfondano una porta ampiamente aperta. I voti sono devastanti per la scuola dell’inclusione e delle competenze; i 500 euro devastano quel che resta della collegialità.
In realtà l’elargizione unilaterale del bonus incide ancora più a fondo le basi stesse dell’idea di Istituzione pubblica: nel campo della formazione, così importante per la professionalità docente, ognuno provvede per sè. Liberisticamente è il solo individuo che si fa garante della qualità del “servizio” (così è oggi intesa la scuola), cioè del gradimento da parte dell’utenza divenuta “clientela”, chiamata a “investire” nell’istruzione e quindi a scegliere quel che pensa sia il meglio.
In questo senso mi pare pericolosa anche la proposta di donare collettivamente una parte della cifra alla scuola, per dimostrare di volerle restituire la sua dimensione “pubblica” e collegiale. In realtà sottoponendola all’influenza dei singoli, o di un gruppo di singoli, portati, dal fatto stesso di donare del denaro, a ricoprire il ruolo di committenti nei confronti della scuola in cui lavorano, con tutti gli effetti di condizionamento del principio stesso di collegialità. Il problema vero è dunque che i 500 euro pro-capite invertono il rapporto naturale, in una dimensione istituzionale, tra scuola e lavoratori: è l’Istituzione che deve provvedere alla formazione che migliora il lavoro e i risultati collettivi, 6secondo le sue finalità istituzionali: il collegio interpreta i bisogni e indica la prospettiva, la scuola dispone delle risorse e procura gli interventi necessari.
Per tentare di arginare questa pericolosa deriva, penso che siano due i piani su cui pretendere un cambio di rotta:
1) finanziamento pubblico consistente alle singole scuole, per l’organizzazione di iniziative di formazione (del collegio e di tutte le sue articolazioni funzionali alla realizzazione del pof, anche in relazione alle priorità definite nel RAV) per coprire tutta la formazione obbligatoria;
2) nuovo contratto collettivo (che rimette a posto il rapporto tra lavoratori e Istituzione) con consistente aumento salariale sia come indennizzo di quanto perso nel passato sia come equiparazione ai livelli stipendiali europei attraverso la revisione profonda dell’organizzazione del lavoro, da riportare strutturalmente sul piano della collegialità agita a più livelli.
In questo quadro si potrà sostenere, anche economicamente, il principio dell’aggiornamento individuale, che appartiene naturalmente all’idea stessa di professione docente e che mai è stato messo in discussione da chi critica il provvedimento del bonus.
Per lavorare a un cambiamento reale della scuola, è essenziale riportare il rapporto tra insegnanti e scuola nell’alveo dei rapporti istituzionali per non smarrire la visione dell’insegnamento come professione sociale in una scuola genuinamente pubblica.