di il manifesto 14.4.2019
,– La battaglia. Perché i lavoratori della scuola, spogliati della loro funzione civile e privati di un orizzonte di libertà culturale, oggi devono rifiutare con ogni mezzo il progetto di regionalizzazione
Sono un’insegnante della scuola italiana, ma lavoro in Veneto, e dunque potrei esserlo ancora per poco. La cosiddetta regionalizzazione dell’istruzione, parte di quel processo di frantumazione dello Stato ben più ampio e pericoloso (G. Viesti, Verso la secessione dei ricchi?; M. Villone Italia, divisa e diseguale) che interessa anche sanità e infrastrutture, ambiente, beni culturali e molto altro, procede carsicamente e potrebbe arrivare a compimento nei prossimi mesi.
Tuttavia, la scuola procede, coi suoi ritmi e le sue attività, senza ben comprendere il destino che la attende: non se ne parla nei collegi docenti, nelle aule insegnanti, nelle riunioni di fine anno, nei corridoi. L’autonomia differenziata sembra una questione tecnica e fiscale, da giuristi o economisti, oppure un problema delle regioni più povere. Nel lombardo-veneto, in fondo, non cambierà nulla, si pensa.
Anzi: forse guadagneremo qualcosa in più, perché siamo più efficienti. Eppure, non è così. Difficile farsi un’idea precisa, vista la mancanza di documentazione e di dibattito pubblici.
Le bozze di intesa rese note surrettiziamente dal sito di Roars nei primi di febbraio – e poi scomparse – danno un’idea del percorso su cui ci incamminiamo.
Lombardia e Veneto vogliono tutto. Pretendono che 14 «pezzi» di potestà legislativa in materia di istruzione (Articolo 10, lettere a, p) vengano espropriate allo Stato e trasferite alle regioni.
Ciò significherebbe contratti e carriere regionali per dirigenti, insegnanti e personale amministrativo e ausiliario; mobilità e trasferimenti tutti da rivedere (ancora possibile spostarsi da una regione all’altra?); concorsi e contingenti regionali, finanziamenti alle scuole paritarie decisi a livello locale.
Ma c’è di più. Cosa studiare e con quali scopi – disciplina, finalità e obiettivi della programmazione scolastica – come formare gli insegnanti sarà stabilito a livello regionale. La valutazione sarà regionale, con ulteriori indicatori Invalsi –prevedibilmente, nuovi Test – definiti su base territoriale.
Il tempo e le risorse per l’«Alternanza Scuola Lavoro», i percorsi dell’istruzione degli adulti e l’istruzione tecnica superiore saranno decisi a livello territoriale, con progetti sempre più spinti dalle esigenze della produttività locale. Il modello a cui si guarda è quello della scuola trentina, punta di diamante, eccellenza nei test standardizzati nazionali. Nel sentire comune, i trentini sono «fortunati»: guadagnano di più (circa 190 euro in più lordi al mese).
A quale prezzo? I dirigenti scolastici sono assegnati alle scuole a discrezionalità del governo locale, che ne cura la formazione e fissa i criteri di mobilità. Il contratto provinciale degli insegnanti trentini si discosta da quello nazionale. Vige l’obbligo di insegnare in 50 minuti, e il tempo risparmiato si recupera in attività pomeridiane di varia natura, con massima disponibilità alle modifiche del proprio orario di lavoro, talvolta giornaliere. I soldi in più non sono regalati: sono prestazioni aggiuntive.
Si guadagna di più perché si lavora di più e in maniera più flessibile: circa 120 ore di attività cosiddetta funzionale, tra potenziamento formativo e recupero. Nelle scuole trentine la giunta provinciale indica gli obiettivi dell’insegnamento attraverso i Piani di Studio Provinciali; stabilisce i corsi di formazione accreditati per gli insegnanti; promuove il trilinguismo (italiano, tedesco e inglese), in ossequio alla cultura autonomistica locale, con insegnanti madrelingua scelti dai dirigenti scolastici del tutto liberamente. “Ciascuno fa quello che deve fare a casa propria”, ha dichiarato recentemente il governatore leghista Zaia (Limes 2/19).
E nel Veneto solerte e operoso non si perde tempo. È già iniziata la formazione regionale dei docenti sulla storia e sulla cultura ed emigrazione veneta (Roars, La bona scola de la Lega). In un recente convegno organizzato da l’Academia dela Bona Creansa, che tiene corsi sul dialetto veneto (pardon, lengua veneta) nelle scuole vicentine, si è parlato di «Clil veneto di storia»: insegnamento «bilingue» della storia, in italiano e veneto.
Più schei, dunque, per gli insegnanti, è vero. Ma pagati a caro prezzo: quello di svuotare completamente il proprio stato giuridico, rimpicciolendolo da statale a regionale, svolgendo attività integrative che poco hanno a che fare con lo studio e l’approfondimento specifici del proprio percorso intellettuale e professionale. Abdicando completamente all’esercizio della propria libertà di insegnamento e diventando maggiordomi al servizio dell’indirizzo politico degli assessori locali.
Anche per questo i lavoratori della scuola, spogliati della loro funzione civile e privati di un orizzonte di libertà culturale, devono rifiutare con ogni mezzo il progetto di regionalizzazione.
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