Scuola-lavoro: le ragioni dei giovani che chiedono un futuro

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– La vista degli studenti in piazza mi rende allegro, lo confesso. Sarà perché le immagini dei ragazzi che bigiano per un nobile motivo mi riportano al 1978, primo anno di Liceo, quando gli scioperi degli studenti erano una cosa seria (ricordo una mattina in cui si protestò anche per la prematura scomparsa di Giovanni Paolo I); forse sarà perché da professore universitario irrequieto, ma ormai anagraficamente lontano dai miei studenti, soffro profondamente quando ho la sensazione che il sistema formativo soffochi le passioni.

La piazza è segno di vitalità, è ricerca di identità, è voglia di partecipazione politica e per questo, indipendentemente dal merito, è spesso una cosa positiva, soprattutto in un’epoca in cui tutto è ormai divenuto virtuale. C’è sempre il rischio che tra i ragazzi si infiltrino soggetti con i volti coperti, armati di spray e oggetti pericolosi, ma questo lato oscuro è un problema a parte che riguarda le forze dell’ordine, peraltro già alle prese con altri problemi seri. Qualche altra volta c’è il rischio che i giovani siano in qualche modo pilotati e per questo è importante dialogare con loro, nelle scuole e nelle famiglie, ascoltandoli e cercando di discutere restando ancorati ai fatti.

Le proteste di questi giorni, che non sono state oceaniche, anche se diffuse in maniera abbastanza uniforme in tutta Italia, hanno comunque avuto il merito di riportare l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema dell’alternanza scuola-lavoro. Come noto, si tratta di un’innovazione introdotta nel 2015 dalla legge conosciuta come “La Buona Scuola” che dall’anno scolastico appena iniziato coinvolge tutti gli studenti dell’ultimo triennio delle superiori. Si tratta di sistema adottato in Germania nelle scuole tecniche con il modello duale, ma introdotto anche a Bolzano e a Trento ormai da molti anni e già sperimentato in altre regioni. Si tratta di contesti produttivi, caratterizzati da tassi di disoccupazione giovanile ampiamente inferiori alla media nazionale italiana, che hanno tratto diversi benefici da questo modello, prevalentemente in termini di orientamento verso università e lavoro.

La legge prevede 400 ore di esperienza lavorativa per le scuole tecniche e 200 ore per i licei: sono un milione e mezzo di ragazzi e ragazze tra i 16 e i 18 anni. Si tratta di numeri che potrebbero intimorire e che esprimono l’ambizione di un progetto molto importante, ma poco organizzato. É importante perché costruisce dei ponti mobili, simili a quelli delle navi da guerra romane, che consentono agli studenti di salire sugli scafi delle unità produttive senza annegare nell’acqua che separa la scuola dalle organizzazioni. Il progetto è poco organizzato perché non ne è stata studiata la fase di implementazione; si tratta di una scelta inevitabile perché diversamente l’alternanza scuola-lavoro non sarebbe mai partita, mentre avremmo molte commissioni ministeriali, regionali e rionali al lavoro per i prossimi dieci anni, nell’intento di immaginare quale possa essere la metodologia più efficiente e scientificamente rigorosa. Una rivoluzione di questa portata richiede ovviamente un tempo di implementazione che in questo caso sarà anche sperimentazione. Non sorprende che possano essersi verificati casi, anche numerosi, in cui i ragazzi non siano stati inseriti in un progetto strutturato o non siano stati adeguatamente seguiti dal tutor aziendale.

Convince meno invece la tesi secondo cui alcune imprese utilizzerebbero i giovani delle superiori come manodopera per risparmiare sui costi, in quanto gli oneri di inserimento di una nuova risorsa sono verosimilmente equivalenti se non superiori alle ipotetiche economie.

L’alternanza è un progetto che sconvolge il quieto vivere delle scuole e pone le imprese e la società di fronte alla responsabilità collettiva della formazione dei giovani, cioè alla costruzione del futuro. In Italia esistono già numerosissime esperienze di successo, rese possibili solo dalla collaborazione tra mondo della scuola, dell’impresa, dell’università, del non profit, delle amministrazioni pubbliche e delle fondazioni.

Ho avuto la fortuna di partecipare a un progetto di alternanza scuola-lavoro che lo scorso anno ha coinvolto 700 ragazzi di terza superiore (saranno 1.100 quest’anno), provenienti da scuole tecniche e da licei della mia città. Si tratta di un percorso nel mondo dell’innovazione industriale creato da una fondazione, da un’impresa e da un ufficio scolastico regionale, con la partecipazione di vari istituti scolastici. Gli adulti coinvolti nella tutorship dei ragazzi, considerando i tecnici aziendali, i manager, alcuni giovani docenti universitari i professori e i dirigenti scolastici sono circa 90, creando in questo modo una vigorosa comunità di apprendimento interdisciplinare. L’esperienza tuttavia è entusiasmante, certamente per chi la conduce, pare anche per i partecipanti, stando alle risposte dei loro questionari. I temi sul tavolo sono numerosi e vanno dal metodo di valutazione dell’apprendimento, alla composizione dei gruppi di lavoro, dal collegamento dell’alternanza ai programmi scolastici all’interazione con i tecnici aziendali via web anche a distanza. Si tratta di un percorso le cui sfide sono la scala e la replicabilità, cioè la dimensione massima del progetto e la possibilità di replicarlo in contesti diversamente caratterizzati per qualità e quantità di risorse disponibili

È necessario ora mettere in rete i progetti di questo tipo e sostenere le scuole nell’organizzazione delle attività. È anche necessario che la società, a partire dalle imprese, non si tiri indietro di fronte alla domanda di futuro che arriva dai giovani. Infine, serve seguire attentamente le regioni dove l’industria è più debole, per evitare che l’alternanza scuola-lavoro aumenti le distanze invece di ridurle.

Max Bergami: Bologna Business School, Università di Bologna

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Scuola-lavoro: le ragioni dei giovani che chiedono un futuro ultima modifica: 2017-10-15T05:30:37+02:00 da
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