di Francesco Provinciali, il Domani, 29.8.2023.
Resta fondamentale il radicamento agli apprendimenti tradizionali. Una riflessione che origina dalla lettura di un breve saggio del Presidente della Consob, Giuseppe Vegas, intitolato “Il cambio di rotta che serve alle scuole”.
In un articolo comparso su Il Messaggero del 27/8 u.s. il presidente della Consob Giuseppe Vegas esordisce con un breve escursus storico che, partendo dalla legge Casati del 1859 e passando attraverso la Costituzione Repubblicana del 1948 fino a giungere all’istituzione della Scuola media unica nel 1963, intende rendere ragione dei progressi che il sistema scolastico italiano ha registrato in tema di estensione a tutta la popolazione in età scolastica del diritto all’accesso agli studi e l’innalzamento dell’obbligo, come grandi conquiste sociali che hanno accompagnato la crescita del Paese.
La sintesi è efficace: mancano tuttavia almeno la Riforma Gentile, i programmi della scuola elementare del 1955, la legge 820/1971 sul tempo pieno, i decreti delegati del 1974 (che compiranno 50 anni l’anno prossimo), la legge 517/1977 sul diritto allo studio e l’integrazione degli alunni disabili e con difficoltà, il DPR 275/1999 sulla cd autonomia scolastica. Per soffermarsi brevemente sui passaggi più significativi che ci hanno portato al presente.
Non volendo scrivere un trattato sulla storia del sistema scolastico nazionale l’analisi di Vegas si sofferma tuttavia con particolare efficacia sulla crescente discrasia tra programmi scolastici e loro attualità, nonostante (e forse anzi a cagione) della crescente e pervasiva introduzione delle nuove tecnologie nelle metodologie dell’insegnamento-apprendimento, anche a motivo di una non corrispondente preparazione da parte del corpo docente.
Ma anche alla concorrenza sleale dei social che indirizzano verso una cultura dell’omologazione e del riduzionismo, proponendo temi e linguaggi e purtroppo anche modelli etici che con la buona educazione nulla hanno a che fare.
Particolarmente interessante è la riflessione che l’autorevole estensore dell’articolo fa quando rileva ad esempio il progressivo ed ingiustificato decadimento di insegnamenti fondamentali come la storia e la geografia, indispensabili per consolidare una consapevolezza spazio-temporale che metta ordine agli altri apprendimenti, per inquadrarli in un contesto localizzato e cronologico dei fatti e dell’evoluzione della cultura. Ciò per far posto a discipline nuove, estemporanee e spesso non sorrette da un adeguato supporto epistemologico: è la scuola dei ‘progettifici’, effimeri e transeunti che radicano nel vuoto della cultura trasmessa e vivono di neologismi, anglicismi, sigle, formule che si confondono in un mare magnum di apprendimenti posticci e subito obsoleti.
Resta fondamentale il radicamento agli apprendimenti tradizionali: molti alunni escono dai vari gradi scolastici senza saper localizzare un evento, distinguere l’opera d’arte di un autore, senza aver letto i classici della letteratura mentre l’ingolfamento nozionistico prevale sul metodo dell’uso del pensiero critico. Sovente anche alle superiori abbiamo alunni che commettono errori madornali di tipo ortografico, grammaticale, sintattico, non sanno leggere un testo e attribuirgli un senso, non sanno scrivere un tema che renda loro merito della capacità espositivo-narrativa, del riuscire a restituire un componimento che abbia capo e coda e un senso compiuto.
Già il compianto Tullio De Mauro aveva evidenziato come questo impoverimento culturale finisse per inglobare la società adulta dove il 70% delle persone non è in grado di padroneggiare i meccanismi della letto-scrittura. Vegas attribuisce a tale confusione culturale la sovrabbondanza dei controlli sui risultati in termini di apprendimento: che ci sia un’enfasi irrituale sull’uso e l’abuso dei test è di tutta evidenza.
Tuttavia chi lavora nella scuola sa bene che non vi è qualità senza controllo.
La cultura della verifica viene meno e si finisce per legittimare tutto ciò che si fa sulla base di un giudizio sommario ed autoreferenziale.
Controllo non significa imposizione o negazione dell’autonomia ma rispetto dell’ortodossia. Va di moda scimmiottare in questi anni i sistemi scolastici di cultura anglosassone, nell’uso della lingua, nei metodi, nella formazione. Non mi stancherò mai di ribadire che ciò risponde più ad una moda passeggera (legata anche alla terminologia delle nuove tecnologie): chi studia sistematicamente la pedagogia comparativa sa che in quei Paesi ci si sta muovendo nella direzione di un curricolo comune, il cd. “common core”, e che le scuole gestite a livello locale hanno mostrato tutti i limiti di modelli organizzativi e formativi dell’autonomia portata agli eccessi.
Il Presidente Vegas sa che le scuole autonome fanno campagna acquisti di iscrizione di studenti e propone che esse siano messe in concorrenza tra loro per verificare quale istituto offre all’utenza un servizio formativo migliore. Dimenticando tuttavia che senza un organismo di controllo interno ogni risultato diventa opinabile.
L’eccesso di autonomia nel sistema scolastico paradossalmente non stimola ma limita libertà di insegnamento, creatività, apprendimenti solidi e convincenti. Essendo svincolata da un sistema nazionale di istruzione-formazione che eviti diseguaglianze e disparità di trattamento, legate alla capacità e competenza della dirigenza scolastica, l’autonomia diventa riduttivo localismo.
Quanto all’abolizione dei titoli di studio – citando Einaudi come primo propugnatore- non farebbe altro che rinviare il controllo dei livelli di istruzione raggiunti: meglio che sia la scuola a selezionare, indirizzare, emendarsi, correggersi nel quadro di un indirizzo programmatico nazionale.
Il contrario sarebbe come dire: promossi dalla scuola ma bocciati nella vita.