Di recente Davide Canfora ha pubblicato con l’editore Castelvecchi un elegante pamphlet che ha come titolo «ll fucile di Marc Bloch» (Roma, 2017, pp. 72) e come obiettivo la difesa degli studi umanistici e degli studi in genere. Beninteso il Canfora non è l’unico a trattare questi temi, ma è il più schietto e coraggioso. Non a caso le pagine più incisive sono quelle che riguardano la valutazione dei professori universitari, questione delicata e pericolosa.

L’ex ministro Fabio Mussi, il noto statista di Piombino, membro del clan di toscani e toscanoidi che per più di vent’anni ha egemonizzato la pubblica istruzione, si inventò l’Anvur, l’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca, un moloch che costa una fortuna allo stato e a cui lo stato ha dato mano libera sull’università. L’Anvur controlla tutto, interviene su tutto, ha potere di vita e di morte su corsi di studio, dipartimenti, dottorati. Fissa parametri irraggiungibili, impone procedure tortuose che cambiano all’improvviso non appena uno ne ha imparato il funzionamento. Prende decisioni in solitudine, non discutibili e non trattabili. Invia i suoi missi dominici nelle università per vedere chi obbedisce e chi no, e a chi non obbedisce taglia i fondi e quindi l’ossigeno. Verrebbe da dire che è un organo messo lì apposta per ostacolare sia la didattica che la ricerca con il pretesto di favorirle.

Essendo la nostra una società che notoriamente promuove il merito, tutti debbono essere valutati. La valutazione è anzi più importante del suo stesso oggetto, come dimostra il fatto che per pubblicare i libri i soldi non ci sono, per valutarli invece sì. Possono gli universitari sfuggire alla valutazione? Naturalmente non possono. Anzi molti la sollecitano, nell’ingenua fiducia che l’Anvur dividerà i bravi dai somari, il grano dalla pula. Ma poiché visionare milioni di articoli è impensabile, l’Anvur ha partorito l’idea fine di mondo: valutarli sulla base del prestigio (spesso autocertificato) della rivista che li pubblica.

E così i giovani sono costretti a mettersi in coda per accedere alle riviste di fascia A, quelle con il ranking più alto, per la gioia dei tanti direttori-satrapi che possono porre condizioni, tessere alleanze, formare cartelli, spianare la strada a servi e segretarie e tenere fuori della porta gli indesiderati e i ribelli. Gli articoli vengono spediti anonimi a giudici anonimi detti referee, ma l’anonimato è una farsa, poiché basta un clic per capire chi ha scritto cosa e giudicare secondo simpatia o convenienza. Ma anche lasciando da parte la malafede, chi protegge gli autori dai referee ignoranti o stupidi? Il sistema non funziona e tutti lo sanno, ma siccome lo usano all’estero deve andare bene anche per noi. Una valutazione imperfetta, si dice, è meglio che nessuna valutazione; una cosa mal fatta è meglio di nessuna cosa. Dipende. Una brutta vacanza sarà pure meglio che nessuna vacanza, ma chissà se una cura sbagliata sia sempre meglio che nessuna cura.

Altra cosa che si sente dire è che la critica senza alternative è sterile: bisogna essere propositivi, inventarsi soluzioni nuove. Il nuovo, il nuovo, viva il nuovo. Ma in mezzo secolo di vita io non ho visto una sola riforma, non una, che non peggiorasse le cose, e mi chiedo perciò se a volte il vero progresso, la vera novità rivoluzionaria, non consista semplicemente in un’onesta marcia indietro. La follia docimologica, l’ossessiva ricerca di un’oggettività introvabile – e per ciò stesso fatalmente virata su criteri quantitativi e cioè fasulli – hanno dato un colpo mortale alla ricerca scientifica. Far dipendere il valore di un saggio dalla reputazione della rivista che lo ospita è esattamente come dire che l’uomo vale per l’abito che indossa. La lettura non serve e infatti non è più prevista. Non si scrive per essere letti, ma per essere citati. E non sempre si scrive quello che si vuole, bensì quello che si pensa che piacerà ai referee. E così la valutazione ottiene l’effetto di non valutare, di mal valutare o di valutare alla rovescia, rivelandosi a occhi non prevenuti per quello che è: un costoso e stolido sistema fatto apposta per promuovere piattezza, conformismo e furberia. Nell’era del publish or perish, l’importante è scrivere: il cosa e il come sono secondari, un lusso che non ci si può permettere.

(articolo pubblicato su «Il Secolo XIX»)