di Anna Angelucci, MicroMega 9.5.2016
– Il 12 maggio si svolgeranno anche nelle scuole superiori le prove Invalsi ed io, come ogni anno, sciopererò, rinunciando a una quota non indifferente di uno stipendio miserevole, per esprimere il mio dissenso critico. Quel dissenso critico che ho manifestato, a voce e per iscritto, in tante occasioni, insieme a tutti quei colleghi, anche universitari, che hanno a cuore le sorti della scuola statale italiana. Un dissenso critico che è sempre rimasto – tenacemente, pervicacemente, ostinatamente – inascoltato dai nostri interlocutori: responsabili Invalsi, ministri, governi.
Considero l’espressione del mio dissenso critico un atto dovuto, pienamente coerente con la funzione docente che, per contratto e per impegno professionale, sono chiamata a svolgere. In questa funzione non rientrano soltanto la preparazione delle lezioni, la correzione dei compiti in classe, la programmazione didattica o il dialogo con le famiglie, ma anche, e soprattutto, l’esercizio quotidiano della mia formazione culturale e pedagogica, delle mie competenze disciplinari e didattiche, della mia pluriennale esperienza di lavoro: ovvero, di tutto quello che fa di me un ‘tecnico’ della professione, che ha il dovere, e non solo il diritto, costituzionalmente sancito, di scegliere liberamente gli strumenti della valutazione dei propri alunni. Perché la valutazione o è parte integrante dell’attività didattica o non è. O è armonicamente e coerentemente inserita in un processo di insegnamento-apprendimento, in cui docente e alunni insieme costruiscono i saperi, in un percorso costantemente condiviso, o è un corpo estraneo, una perdita di tempo, un’esperienza inutile, ove non dannosa.
I test Invalsi misurano le competenze degli studenti in italiano e matematica. Garantiscono oggettività e scientificità. Forniscono risultati statisticamente comparabili con cui si creano fasce di livello della popolazione scolastica italiana, in relazione a coordinate geografiche e tipologia di scuola. Questi gli assunti. Sono veri? Insigni studiosi italiani hanno messo in discussione sia il concetto di competenza, sia i modellisu cui sono costruiti gli item dei test, e con cui sono analizzati gli esiti e determinati i punteggi; autorevoli accademici di tutto il mondo hanno inoltre denunciato gli effetti nefasti dei test standardizzati OCSE – PISA, modello di riferimento dei test Invalsi. Senza contare la fioritura di una letteratura critica internazionale che mette in discussione l’intero sistema di valutazione basato sui test in vigore nel mondo anglosassone (assessment), evidenziando criticità e ricadute negative sulla preparazione degli alunni e sulle condizioni di lavoro degli insegnanti (per un approfondimento, si legga D. Ravitch, The Death and Life of the Great American School System: How Testing and Choice Are Undermining Education (2010) e questo mio contributo).
E ancora. Al netto di tutte le riflessioni critiche nel merito e nel metodo, immaginando di accettare uno strumento evidentemente imperfetto e comunque estraneo alla tradizione pedagogica italiana in nome di una presunta utilità superiore, quella in base alla quale è stato necessario legittimare i test Invalsi con il DPR 80/2013 (Sistema Nazionale di Valutazione), possiamo evidenziarne effetti positivi per le scuole? Per gli studenti? Per gli insegnanti? No, nessuno. In questi anni, alla pubblicazione dei risultati di una rilevazione che costa agli italiani milioni di euro non è conseguito nessun intervento. Nessuna iniziativa correttiva, di formazione, di miglioramento. Nessun investimento. L’Invalsi fotografa l’esistente: il degrado di gran parte del Sud, antropologico, economico, culturale e sociale prima che scolastico; il buon andamento del Nord, nelle zone più ricche e più attrezzate; le disparità dei risultati legate alle condizioni di partenza e socio-economiche degli alunni; la migliore preparazione della scuola pubblica rispetto a quella privata. Niente che già non sapessimo. E che non avessimo considerato nella nostra esperienza quotidiana di insegnanti, nel confronto, nella relazione, nella costruzione della nostra conoscenza critica dei problemi dei nostri studenti e del nostro paese.
Quello che è accaduto, invece, è sotto gli occhi di tutti. L’imposizione coatta di una legge, la 107/2015, che spaccia per ‘buona scuola’ un intero sistema di istruzione gettato allo sbando. Dove si naviga a vista, tra anarchia e autoritarismi, costretti a scimmiottare dinamiche e linguaggi aziendali, immersi in un clima assurdo di quotidiana, reciproca diffidenza: tutti contro tutti, prigionieri nell’emporio di Minnie come nell’ultimo film di Quentin Tarantino, assillati, minacciati e fagocitati da una pletora di adempimenti coercitivi e velleitari ma senza soldi per le attività reali.
Qualche esempio? All’obbligo di impartire corsi di recupero per gli studenti con debiti formativi (O.M 92/2007) non corrisponde il relativo finanziamento alle scuole; alla richiesta di indicare gli obiettivi di miglioramento in un piano triennale (DPR 80/2013) non fa seguito la concreta possibilità di realizzarli con le risorse economiche necessarie; alla sollecitazione di fornire indicazioni specifiche per l’organico potenziato (L. 107/2015), un algoritmo ministeriale ha risposto mescolando ordini di scuola e classi di concorso in una diaspora insensata, con docenti abilitati all’insegnamento liceale assunti alle elementari e docenti di disegno o educazione fisica mandati, a centinaia di km di distanza, nelle scuole che avevano fatto richiesta per italiano o matematica. Senza soldi per la contrattazione integrativa d’istituto. Senza soldi per pagare gli straordinari ai collaboratori scolastici o per tenere aperte le segreterie. Senza soldi per svolgere le attività previste da leggi e regolamenti che si affastellano e si stratificano come secentesche gride manzoniane.
Costretti dalla legge 107 a declinare l’autonomia nelle forme autarchiche di un esasperato laissez-faire e schiacciati dal rafforzamento della funzione monocratica di governo attribuita ai dirigenti, cui spetta l’onere di portare a termine quella trasformazione di un’istituzione sancita dalla Costituzione in un servizio culturalmente ed economicamente subalterno al sistema produttivo già avviata 20 anni fa da Berlinguer, siamo diventati docenti e studenti di scuole statali senza oneri per lo Stato. Sotto il profilo politico, questo implica la consegna definitiva della scuola pubblica italiana al mercato e al privato: oggi, le famiglie, che sostengono con i loro contributi ‘volontari’ i costi di gestione delle scuole, fino a centinaia di euro pro capite nelle zone e nei quartieri più ricchi; domani, gli investitori privati – persone fisiche, fondazioni, società, enti – già adeguatamente gratificati dal protocollo d’intesa sull’alternanza scuola-lavoro firmato tra MIUR e Confindustria, e più ancora con i bonus fiscali e i crediti d’imposta previsti per le loro erogazioni liberali alle singole scuole. Di fatto, la riforma Renzi disegna per noi una brutta copia delle charter school americane: istituzioni statali senza Stato, screditate e impoverite, come nella paventata profezia di Calamandrei che oggi, drammaticamente, si autoavvera.
Tutto ciò non stupisce i più attenti osservatori delle politiche di questo governo, sensibile alle sollecitazioni di un’Europa della finanza che invoca austerity, liberalizzazioni, privatizzazioni, competizione e libera concorrenza, riservando l’intervento statale solo al salvataggio delle banche. Le richieste di riforma di una scuola messa costantemente sul banco degli imputati perché scarsamente ‘produttiva’ costellano le lettere e le raccomandazioni che l’Unione europea ha inviato puntualmente negli ultimi anni e che i nostri governanti hanno recepito nelle forme più acritiche: c’è scritto “diversificazione della carriera dei docenti” e “valutazione generalizzata del sistema educativo” ma si legge ‘applicazione dei più discrezionali e personalistici criteri meritocratici’, ovvero di ‘governo soggettivo del merito’, nelle forme già in atto oggi della stigmatizzazione e della marginalizzazione, e domani, con la chiamata diretta del dirigente, dell’ostracismo e della proscrizione dei docenti problematici, contrastivi o non allineati. O malati. O con difficoltà familiari.
C’è scritto “monitoraggio dei risultati dell’attività scolastica attraverso le rilevazioni nazionali e internazionali delle competenze degli studenti in più momenti del loro percorso formativo” e “rafforzamento e ampliamento della formazione pratica, per assicurare un’agevole transizione dalla scuola al mondo del lavoro aumentando l’apprendimento e la formazione professionale”, ma si legge ‘potenziamento delle forme di controllo capillare e diffuso di una conoscenza meramente operativa, epurata dei contenuti e della sua dimensione critica e analitica, la cui tradizionale funzione speculativa e formativa, profondamente disinteressata, si è definitivamente trasformata in performativa, strumentale, funzionale, proattiva alle presunte esigenze del mercato e dell’impresa e sugellata con l’ideologia delle competenze e dell’alternanza scuola-lavoro imposta dalla legge 107’.
Perché è a scuola che deve nascere l’homo oeconomicus, che abbia compiutamente “assunto se stesso a capitale umano e introiettato il modello della razionalità d’impresa come modello della razionalità tout court” (V. Pinto, Valutare e punire, Cronopio, 2012), non più soggetto integrato di diritto ma oggetto atomizzato di interesse individuale all’interno di un nuovo ‘ordine del discorso’, il cui fondamento veritativo cui afferisce ogni pratica di governo, come ci ha insegnato Foucault, è “il divenire impresa della soggettività” (M. Nicoli, Le risorse umane, Ediesse, 2015).
“Lo Stato è un’azienda, la famiglia è un’azienda, ogni essere umano è un’azienda”, ha enfaticamente ribadito il giovane ingegnere relatore in un incontro di alternanza scuola-lavoro all’attonita platea dei miei studenti 16enni, invitati a rendere immediatamente funzionali i saperi acquisiti.
E’ un’idea della conoscenza concepita interamente sotto il segno della esecuzione, un’idea che rinuncia alla complessità, alla gratuità dell’atto conoscitivo, ai tempi lunghi della riflessione e del pensiero, in nome di un sistema proceduralizzato e standardizzato che ha come perno la valutazione – dei ragazzi, dei docenti, della scuola – intesa non più come osservazione di un percorso didattico, di un processo articolato di acquisizione e rielaborazione culturale, ma come somma di atti burocratici che certifichino saperi procedurali, che si credono (erroneamente) più immediatamente spendibili nel mercato globale del lavoro. Una valutazione che ha assunto un valore in sé, assoluto, una sua legittimità intrinseca scaturita dall’autosufficienza formale e sostanziale di meccanismi di controllo centralizzati, che prescinde, precede, fa a meno della relazione dinamica insegnamento/apprendimento, dei suoi contenuti, delle trasformazioni e dei cambiamenti che l’educare (etimologicamente, ‘portare fuori’) comporta.
Il suo dispositivo di rinforzo è un diffuso sentimento di colpevolizzazione della scuola, alla quale si addossa la responsabilità nell’aumento della disoccupazione giovanile, passata dal 19,4% del 2007 al 37,9% di febbraio 2016, e della percentuale di giovani tra i 15 e i 24 anni che non lavorano né sono impegnati in corsi di studio o di formazione, la più elevata tra i paesi dell’Unione europea, le cui cause sono, per i tecnocrati di Bruxelles e per i nostri esperti, da ricercare nel nostro sistema d’istruzione, ancora caratterizzato da risultati scolastici inferiori alla media dell’Unione europea e da tassi di abbandono scolastico relativamente elevati. E non, invece, nella mancanza di politiche economiche e industriali di lungo respiro, “ispirate a un modello di crescita differente” (L. Undiemi, Il ricatto dei mercati, Salani, 2014) e volte allo sviluppo e al progresso del nostro Paese!
Ma il costante j’accuse omette tuttavia un particolare significativo: secondo i dati Eurostat, l’Italia è da molti anni agli ultimi posti per investimenti in istruzione tra i paesi Ocse. Dalle statistiche appare che quella sull’educazione in Italia è la voce della spesa pubblica che ha subito negli anni della crisi, dal 2007 al 2013, la maggiore riduzione percentuale, meno 1,6%, ovvero il doppio rispetto al meno 0,8% della media Ocse. Miliardi di euro sottratti alla scuola, mentre, nello stesso periodo, la spesa delle famiglie per l’istruzione è raddoppiata, con buona pace della gratuità posta a fondamento costituzionale dei principi di eguaglianza e solidarietà sociale. Il rapido e accurato programma di privatizzazioni che il Consiglio europeo ha raccomandato all’Italia comporta dunque l’assunzione di una concezione aziendalistica e verticistica anche nel governo della scuola e corrisponde pienamente allo spirito della legge 107, che dismette la scuola-istituzione ormai intesa come un costo insostenibile per lo Stato e la immette nel mercato come merce.
Ma è una riforma che si inserisce coerentemente nel quadro dei cambiamenti strutturali dell’organizzazione repubblicana in corso d’opera. E’ una riforma perfettamente coerente con il principio dell’erosione dei valori democratici dissimulati con lo snellimento, l’efficientamento delle procedure che è sotteso alle attuali modifiche istituzionali e costituzionali. Svuotando dall’interno i percorsi decisionali democratici e collegiali, si eleva la competizione dentro le scuole e tra le scuole a generatore simbolico di tutti i valori, a principio ispiratore di tutte le azioni, le scelte, i comportamenti, in un circolo vizioso che fa oggi della scuola pubblica il laboratorio ideale delle pratiche culturali, individuali e sociali, della post-democrazia, in cui lo Stato di diritto, e le istituzioni che lo rappresentano, deve essere sostituito dallo Stato-impresa, il cui cardine è l’interesse privato.
“Viviamo un tempo esecutivo”, ci ammonisce il costituzionalista Gustavo Zagrebelskj. Un tempo ‘esecutivo’ e non politico, in cui il discorso politico è liquidato come ideologico, in cui la discussione e il confronto sui ‘fini’ sono ostacoli da rimuovere per lasciare campo libero ai ‘mezzi’. E questo sta accadendo anche nella scuola, dove la domanda sul ‘fine’ ultimo dell’educazione appare definitivamente cassata.
Il 12 maggio, nelle scuole superiori italiane, il Miur ci sottopone ancora una volta alla celebrazione rituale dei test Invalsi. Dopo averci imposto la stesura di un Rapporto di Autovalutazione con un format chiuso, in cui gli unici spazi autonomi di riflessione non potevano superare i 150 caratteri, perché solo la ridicola misura di un tweet si adatta ad esprimere obiettivi di miglioramento per i quali non sarebbe stata allocata nessuna risorsa. Dopo averci imposto di perdere tempo prezioso per mettere a punto un’umiliante ‘missione impossibile’ che permetta, attraverso lambiccati meccanismi di competizione e selezione, di misurare e monetizzare la qualità del nostro operato, dando al dirigente scolastico la possibilità di elargire una paghetta una tantum ai cosiddetti meritevoli, col rischio di essere avvolti nella spirale di un pericoloso darwinismo didattico in cui non è difficile immaginare chi sarà ritenuto ‘più adatto’. E dopo averci imposto di organizzare capillarmente ore e ore di studio perso per i nostri studenti per fingere di formarli a 16 anni a un lavoro che non c’è neanche per i loro genitori.
Il mio sciopero del 12 maggio non è solo uno sciopero. E’ un grido di dolore.