di Eleonora Fortunato, Orizzonte Scuola 5.6.2015.
Una lunga intervista in cui l’ispettore del Miur, già consigliere dell’ex ministro Gelmini, ci aiuta a mettere a fuoco i nodi più importanti relativi alle assunzioni, futuro concorso e reclutamento.
Ha parlato di raccordo tra personale abilitato e nuovo sistema di reclutamento e formazione contenuto nel Ddl. Questo vuol dire che non pensa verrà bandito il famoso concorso 2015 o che è pessimista circa le sue reali possibilità di assorbimento del personale di II fascia?
Ho piena fiducia che il concorso 2015 sarà bandito. Su questo non nutro il minimo dubbio. Le previsioni normative contenute nel DDL “buona scuola” rendono ancora più netta una prospettiva che, al di là della decisione “politica”, è insita nel Testo Unico. Le graduatorie concorsuali, anche senza le modifiche, hanno un termine di durata prefissato di tre anni. Il Testo Unico vigente le proroga “ad libitum”, “fino all’entrata in vigore della graduatoria relativa al concorso successivo corrispondente”. Le modifiche ripristinano il termine tassativo di tre anni, che è il benvenuto. In effetti, mentre la proroga indefinita delle GM concorsuali poteva essere ammissibile giuridicamente in un regime di “doppio canale” (che poi fosse adeguata alle esigenze di qualità del sistema scuola, è altro discorso), in base al quale gli aspiranti che entravano via via in possesso dei titoli previsti dalla legge accedevano alle graduatorie permanenti, oggi detta proroga risulterebbe gravemente lesiva degli abilitati “più giovani”, con profili di illegittimità dovuti alla mancata possibilità di “spendere” il titolo conseguito entro un lasso di tempo ragionevole e prefissato.
Quanto alla questione dell’assorbimento della II fascia, occorre mettersi d’accordo: lo scopo di un concorso per titoli ed esami è quello di coprire con personale a tempo indeterminato, attraverso la procedura selettiva “dei migliori” prevista in via ordinaria dalla Costituzione, tutti i posti vacanti e disponibili in un determinato settore della Pubblica Amministrazione, in questo caso la scuola. La sentenza della Corte europea “Mascolo” e le altre sentenze similari, che hanno colpito l’Italia ma non solo, ribadiscono questa necessità: una volta definita la pianta organica, questa va coperta con personale di ruolo, e le supplenze su quei posti sono ammissibili solo “tra un concorso e l’altro” o per far fronte a necessità episodiche. I concorsi vanno banditi regolarmente e a copertura di tutti i posti disponibili, non uno di più, non uno di meno. Qualsiasi violazione di questo principio sarebbe sanzionata: e, aggiungo, a ragione. Ma ciò non ha alcuna attinenza con l’assorbimento di tutti coloro i quali hanno un titolo di abilitazione, comunque e ovunque conseguito. La riduzione a termini fisiologici delle supplenze e l’abbattimento di ciò che è proprio chiamare “precariato” (il termine andrebbe attribuito solo a coloro che ricoprono, in questo caso nella scuola statale, supplenze su posti vacanti e disponibili oltre i termini ritenuti congrui dalle direttive europee) parte dalla regolarità delle procedure concorsuali e di abilitazione, non da altro.
Aggiungo: per abitudine inveterata e per esperienza, aspetterei di parlare di “nuovo” quando i testi (in questo caso, un decreto legislativo) saranno in Gazzetta e quando tutto sarà ai blocchi di partenza. Il rischio tangibile è che si ripercorra l’errore compiuto sospendendo le SSIS prima di attuare il TFA. Fu un errore, fatto in buona fede, perché era stato assicurato un pronto avvio del nuovo sistema. Ma dagli errori si impara, dai propri e da quelli degli altri. Detto in altri termini: guai a non bandire con regolarità le procedure attuali di TFA in attesa delle procedure future: perché non è corretto lasciare in sospeso chi attende di potersi abilitare; e perché, come ribadito dal Consiglio di Stato, la Repubblica non può pretendere l’esibizione di un titolo, se non garantisce, con costanza e regolarità, la possibilità di conseguirlo. Con il codicillo di favorire le abilitazioni “di importazione”, per chi può permettersele, visto che costano almeno il doppio del TFA.
Perché incanalare in un percorso di apprendistato chi, avendo conseguito un titolo altamente professionalizzante, proprio apprendista non è?
Quando ho letto la norma, l’ho considerata come una sorta di “rompicapo giuridico”. Il termine apprendistato ha un suo fascino, ma ha anche una connotazione ben precisa. Il regime dei contratti di apprendistato, come disciplinato dal decreto legislativo 167/2011, ha alcune caratteristiche ben precise. Tre sono le tipologie previste dalla normativa: 1)l’apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, finalizzato a conseguire una qualifica professionale o un diploma professionale alternando lavoro e studio, destinato a giovani dai 15 ai 25 anni, senza una qualifica o un diploma professionale; 2) l’apprendistato professionalizzante o di mestiere, finalizzato al conseguimento di una qualifica professionale ai fini contrattuali attraverso una formazione trasversale e professionalizzante, destinato ai giovani tra i 18 e i 29 anni compiuti (nel caso di possesso di qualifica professionale l’età minima scende a 17 anni), in tutti i settori di attività, privati o pubblici; 3)l’apprendistato di alta formazione e di ricerca, un contratto di lavoro che consente di conseguire diversi livelli di titoli di studio: diploma di scuola secondari superiore, diploma professionale di tecnico superiore, diploma di laurea, master e dottorato di ricerca, utilizzabile anche per il praticantato per l’accesso alle professioni basate su ordini professionali, che è tutt’ora in fase di progettazione e che riguarda i giovani tra i 18 e i 29 anni compiuti.
La caratteristica comune è la concomitanza di formazione e lavoro, il livello di retribuzione, che prevede un inquadramento sino a due livelli inferiore oppure attraverso una decurtazione percentuale, che si assottiglia sulla base dell’anzianità di servizio; l’età “bassa” degli “apprendisti”.
Ora, se l’intenzione del legislatore è quella di passare a un regime di “corso-concorso”, come quello in vigore per la dirigenza pubblica, l’obiettivo mi sembra perseguibilissimo, con più di una accortezza, mediante l’utilizzo di istituti giuridici più adattabili alle pecxuliarità dell’insegnamento. Provo a fare un esempio. Sono banditi 100 posti per la classe A/Pippo, che corrispondono ai posti vacanti e disponibili per l’anno successivo (perché i percorsi sarebbero banditi annualmente). Bene. Inserisco i 100 corsisti, ma contemporaneamente, in misura più o meno ampia, oltre a pagare la formazione (e se si fanno le cose seriamente, sotto i 2.500 euro non si scende) dovrei coprire le supplenze di quei cento posti, visto che si parla di un affidamento progressivo di compiti di insegnamento…
Oppure, e peggio mi sento, si bandiscono 100 posti per i posti della A/Pippo che si renderanno disponibili DOPO tre anni… e come li pago, i 100 apprendisti? Solo con risorse aggiuntive. Perché l’eventuale utilizzo per la copertura sulle supplenze brevi risulta ovviamente non prevedibile. Siccome il decreto prevede l’accordo col MEF, alla luce dell’esperienza non mi sento tranquillo. Inoltre, va tenuta in debito conto la mobilità, che ogni anno scompagina le previsioni dei contingenti, sia in maniera territoriale (i passaggi da regione a regione), sia in maniera “verticale” (passaggi di cattedra, mutamenti nell’offerta formativa, etc).
Se la ratio del legislatore è quella di introdurre un sistema da corso concorso, allora lo strumento più semplice sarebbe 1) anticipare le operazioni di mobilità, in modo da avere le disponibilità nette (poniamo a febbraio del 2020); 2) bandire ANNUALMENTE su tutti i posti vacanti e disponibili per l’anno scolastico successivo (poniamo, il 2020/2021); 3) sottoscrivere un contratto a tempo determinato triennale, che al primo anno preveda ANCHE la frequenza del percorso di abilitazione (che potrebbe essere analogo al TFA, considerando come tirocinio lavorativo il contratto del I anno), oltre all’accompagnamento del tutor, i cui costi sarebbero da decurtare dallo stipendio tabellare e che nei due anni successivi preveda, oltre alla copertura dell’orario di insegnamento, ulteriori moduli di “formazione continua”. Al termine del triennio, se tutto fosse positivo, il contratto sarebbe trasformato a tempo indeterminato. Ovviamente, chi l’abilitazione ce l’ha già dovrebbe partecipare alla procedura selettiva “concorsuale” (perché, e lo ricordo, è fondata sui posti vacanti e disponibili…), ma a quel punto il contratto a tempo determinato potrebbe essere biennale, o triennale saltando comunque il periodo di abilitazione.
Cosa cambierebbe rispetto all’assetto attuale? I momenti “selettivi” sarebbero progressivamente portati da due a uno, compattando formazione e immissione in ruolo; anziché l’anno di abilitazione e il periodo “di formazione e di prova” annuale post concorsuale, si avrebbe un contratto a tempo determinato triennale con successiva trasformazione. Insomma, un anno in più, ma tempi di immissione più rapidi e compatti. Aggiungo di non aver compreso la “ratio” dei tre anni, forse residuo delle proposte Aprea. A mio modestissimo avviso, due anni complessivi sono più che sufficienti a formare e valutare l’attitudine all’insegnamento, tenuto anche conto che il DDL impone la formazione permanente. Se poi qualcosa non dovesse funzionare successivamente, gli strumenti ci sono. Sarei ovviamente curioso di conoscere le motivazioni della triennalità-
Non ritiene che il legislatore dovrebbe adoperarsi per una soluzione meno penalizzante di quella da lei proposta per il personale già in possesso del titolo di abilitazione? Si vocifera di un concorso per soli titoli…
Posto che non seguo, per costume personale, le “vociferazioni”, il legislatore compie scelte politiche, poi deve cercare le soluzioni tecniche adatte a dar loro corpo. Quando dico “adatte”, dico anche congrue col quadro normativo generale e rispettose dei diritti giuridici e delle fonti del diritto. Prima considerazione: nel 2015 sarà bandito un concorso, per soli abilitati: da questo punto di vista, “pacta sunt servanda”. Dopo di che, i casi sono due: o sarà bandito un successivo concorso nel 2018, o tra il 2015 e il 2018 sarà allestito il nuovo sistema: il quale, con un raccordo opportuno, non aggiunge e non toglie nulla rispetto alle attuali prerogative. Il concorso per soli titoli sarebbe, né più né meno, una nuova graduatoria di un rinnovato doppio canale. Il parlamento può restaurare il doppio canale un minuto dopo averlo mandato in pensione, destinando un massimo del 50% dei posti a graduatorie composte di personale in possesso di qualsivoglia titolo di abilitazione conseguito in Europa. Può farlo anche subito, modificando il ddl scuola. Ma si tratta, per l’appunto, di scelte politiche sulle quali non entro.
Sostiene che gli abilitati dovrebbero comunque sostenere le prove concorsuali. Su questo argomento c’è un po’ di attrito tra abilitati TFA e PAS.
Cerco sempre di ragionare su ciò che è possibile giuridicamente. Lo facevo quando avevo incarichi politici, lo faccio a maggior ragione da alcuni anni a questa parte, visto che il mio ruolo è tecnico. Non vedo come sarebbe possibile una strada diversa. Sul piano del diritto, e questo l’ho sempre ribadito, TFA, PAS, SSIS, Master, Aggregation e dunque qualsiasi titolo di abilitazione sono la stessa cosa, in un momento “dato” e rispetto alle procedure vigenti in quel mnomento. I casi sono tre: o si riapre il doppio canale, istituendo una nuova graduatoria per titoli o restaurando le “permanenti”, e in questo caso una “eccezione” per il TFA a discapito di qualsiasi altra abilitazione, oltre che dura da far passare in Parlamento, correrebbe un rischio evidente di illegittimità (che poi lo sancisca la Corte europea o la Corte costituzionale, poco cambierebbe); o si continua con la procedura concorsuale prevista per il 2015 anche nel 2018, e l’unica possibile differenza sta nella diversa pesatura del titolo, del resto già prevista dalla normativa vigente (che assegna da sempre un particolare punteggio alle abilitazioni “ordinamentali”: senza che le magistrature abbiano mai messo in dubbio questo principio); oppure si adotta il sistema ex delega articolo 22, e anche in quel caso non vedo possibile alcuna differenziazione (come “titolo di accesso”) dei diversi percorsi di abilitazione. Beninteso: nulla vieterebbe di riservare sino al 50% dei posti dei nuovi contratti “triennali” agli abilitati attuali: ma ciò non potrebbe che avvenire o sulla base delle prove di accesso, o di una ennesima graduatoria, nella quale non è difficile prevedere un peso preponderante da assegnare al servizio… e saremmo comunque punto e a capo. Una volta definii le graduatorie come l’Idra di Lerna…
Parla anche di raccordo per le paritarie, ma queste scuole non dovrebbero comunque continuare ad assumere a tempo indeterminato chi fosse in possesso di abilitazione, prescindendo dal nuovo sistema?Per il futuro, invece, in che modo i non abilitati potranno aspirare a un impiego stabile nella scuola paritaria?
Il sistema vigente prevede che l’abilitazione costituisca una “conditio sine qua non” per la parità. Attualmente, di abilitati ce ne sono, e in abbondanza. Non è neppure scontato che ci sia una migrazione in massa nel pubblico, almeno per quelle paritarie di qualità che sono anche in grado di offrire retribuzioni e prospettive professionali. Se poi dovesse “cadere” qualche diplomificio, non sarò certo io a piangere. Casomai, il problema è un altro. Il sistema prospettato all’art. 22 è un “corso concorso” basato sui fabbisogni della scuola statale. Il “diploma di specializzazione” conseguito al termine del I anno come può valere per la scuola paritaria, sia essa “privata” o comunale”, dal momento che è inserito in un percorso triennale propedeutico all’immissione in ruolo nello Stato? Solo in astratto. A questo punto, ci sono solo due possibilità. O l’abilitazione cessa di essere requisito per l’insegnamento nelle paritarie; o nel percorso prospettato sono inseriti ANCHE docenti delle paritarie in situazione analoga, ovvero con contratti a tempo determinato di cui si prevede una successiva trasformazione. Fermo restando che un docente che dovesse passare dal “privato” allo Stato, dovrebbe sottoporsi alle prove di accesso e sottoscrivere il relativo contratto.
In generale, qual è il suo giudizio sul nuovo modello di abilitazione contenuto nel Ddl?
Sarebbe la prima volta, dal 1859, che l’Italia sperimenta il “corso concorso” per l’insegnamento. A dire la verità, ci provò anche Letizia Moratti (una versione dello “schema di decreto legislativo” che poi si sarebbe trasformato nel 227/2005 è rinvenibile sul web, al link http://www.edscuola.it/archivio/norme/decreti /dlvo_reclutamento.htm), ma gli scogli furono insuperabili e si ripiegò. L’idea di base è coraggiosa, funzionale e, come tale, positiva. Certo, si andrebbe su una strada diversa rispetto a quella prevista dalla generalità dei Paesi Europei, che proprio in virtù della Direttiva 2005/36/CE distinguono tra abilitazione e reclutamento, come nel modello TFA e come ancora sarà per quanto riguarda primaria e infanzia. In effetti, le variazioni a livello OCSE riguardano le modalità di conseguimento dell’abilitazione, che possono essere consecutive (come per il TFA) o contemporanee (come SFP). L’unica eccezione parziale è la Francia, con analogie rispetto al modello prospettato dalla delega, anzi, per megli dire, “era”, visto che la riforma del 2013 ha separato abilitazione e concorsi. Il legislatore avrà soppesato accuratamente i pro e i contro, e deciso per questa opzione. Benissimo. Ma se vado al di là dell’indicazione politica, forse la delega richiede qualche modifica che ne consenta la piena e agevole attuazione. Nulla vieta di provare a stendere il decreto legislativo sulla base della delega così come attualmente è scritta, e casomai di correggerla nel decreto “proroga termini”. Purché, e lo voglio ribadire, si abbia l’accortezza di continuare nelle procedure attuali, senza bloccarle sperando in un cammino “rapido” su cui l’esperienza e tempi incomprimibili invitano alla cautela.