Oggi la scuola sembra sempre più un supermercato che vende ‘soft skill’.
Cosa penserebbero di noi se affermassimo che andiamo dal dentista per leggere le riviste lasciate a disposizione dei pazienti in sala d’attesa, per chiacchierare con le segretarie e scambiarci opinioni sulla squadra di calcio preferita con il dentista stesso? Tutti sappiamo cosa andiamo a fare dal dentista e le azioni di cui sopra sono, per così dire, complementari alla seduta ma del tutto accessorie e non indispensabili. Luoghi diversi sono deputati a funzioni diverse; nell’epoca del multitasking vediamo sì sorgere librerie che sono anche bar o macellerie-ristoranti, ma la funzione primaria di questi luoghi non viene confusa con quella accessoria. Se anche fosse così non succederebbe nulla di grave e vorrebbe soltanto dire che i clienti preferiscono l’aperitivo all’ultimo romanzo e gradualmente, aumenterebbero le offerte del bar e diminuirebbero quelle della libreria.
Il preambolo piuttosto pedante mi serve per dire che in questi giorni si conferma che una delle istituzioni più importanti della nostra società sembra avere perso la “bussola”. Chi governa la scuola non si rende conto (o non vuole rendersi conto) che la scuola non è un contenitore semivuoto, da riempire con ogni sorta di attività. La scuola ha una funzione primaria, che è quella di istruire: cosa che comporta un certo modello di comportamento, da parte di docenti e studenti, legato appunto alla funzione primaria della scuola. Imparare richiede attenzione, buona volontà e, a volte, una certa fatica; tutte cose che richiede anche l’insegnare, attività che, inoltre, non si può svolgere senza aver chiari i contenuti della propria disciplina.
Sto parlando, è evidente, di una scuola così come dovrebbe essere e non della scuola com’è. E quindi torno a Machiavelli, che ci ha insegnato, una volta per tutte, che bisogna ragionare a partire dalla realtà effettuale. Oggi, dunque, la scuola è trasformata in un supermercato e il singolo istituto sforna ogni anno il suo volantino pubblicitario, sotto forma di PTOF.
Vedere le strade tappezzate di manifesti che invitano ad iscriversi ad una certa scuola è oramai fatto comune e questi manifesti si differenziano da quelli che hanno per oggetto altre “merci” soltanto per una grafica più brutta, fatta in casa, perché le scuole non possono permettersi una agenzia pubblicitaria vera. Se potessero, non avrebbero esitazioni a farlo. Il Ministero, dal canto suo, soffia sul fuoco e spinge affinché la scuola statale, contaminata com’è dall’insana competizione tra scuole (statali) accetti l’idea di “merito”, che è come dire che la competizione tra scuola e scuola passa alla competizione tra docenti e ad una ingiustificata attenzione per gli studenti eccellenti (la scuola si dovrebbe occupare di tutti, ma soprattutto dei più deboli).
In queste scuole-supermercato, in cui convivono aspetti arcaici e fascinazione per le nuove tecnologie, in cui il rapporto tra studenti e insegnanti è troppo spesso argomento da articoli di cronaca se non proprio nera almeno grigio scura, si inserisce un nuovo prodotto, da inserire nel reparto in cui si vendono le soft skill. Sulla scatola che lo contiene leggiamo “Educazione alle relazioni”. Ma il titolo è cangiante, come certe figurine con cui giocavano i bambini tanti anni fa e che facevano comparire, muovendole un poco, una nuova immagine. Sotto “educazione alle relazioni” compare “educazione sentimentale” e poi ancora “educazione all’affettività”.
S’ode a destra uno squillo di tromba: “Purché non si tratti di educazione sessuale!” A sinistra (Schlein) risponde uno squillo: “Obbligatoria in tutti i cicli scolastici l’educazione all’affettività e al rispetto delle differenze […] dobbiamo intervenire prima che si radichi quell’idea violenta e criminale di un possesso di un controllo sul corpo e sulla vita delle donne”. Il ministro Valditara revoca, dopo averle appena nominate, le tre garanti dell’ambizioso ancorché incompleto progetto ed io non posso fare a meno di pensare ad una delle più famose frasi di Ennio Flaiano: la situazione è grave ma non è seria. In tutto questo baccano nato dall’ultimo atroce delitto in cui la vittima è donna, di affermazioni sensate ne ho sentite poche. Cosa si pensa di risolvere aggiungendo dodici ore di “corso”, per giunta mal strutturate, pomeridiane e perlomeno velleitarie? Chi sarà il docente in tali corsi e con quali competenze specifiche? Basterà il circle time a creare davvero comunicazione all’interno del gruppo degli studenti?
A fronte di interventi e metodologie blande e affidate in gran parte alla capacità dell’adulto che guida il gruppo (e, se un cattivo docente di matematica fa danno, un cattivo docente di “educazione alle relazioni” ne fa uno maggiore) si può avere una ragionevole certezza sul fatto che i risultati saranno modesti. Intanto bisognerebbe chiedersi quali siano le cause che hanno portato ad aver necessità di una “educazione alle relazioni”. Poiché gli esseri umani sono animali sociali e poiché ogni educazione e apprendimento si dà all’interno di relazioni tra persone, cosa determina la necessità di un surplus in questo che è il percorso stesso della crescita di ogni piccolo? Quali sono le origini di un deficit che ha bisogno di un “integratore” di dodici ore in un trimestre per essere colmato?
La misura stessa dell’“integratore” (minima) per risolvere un problema così grande da un lato ci fa sorridere e dall’altro ci fa pensare che qualcosa si sia spezzato davvero, in questo nostro mondo.
Chiediamoci come avvenga oggi l’“educazione sentimentale” dei nostri ragazzi. Un esempio letterario tratto da uno dei più grandi romanzi dell’Ottocento: Emma Bovary si era costruita la sua idea dell’amore leggendo romanzi sentimentali- quanto fosse lontano dalla realtà e quale tragica influenza avessero avuto le sue letture sulla giovane donna lo racconta magistralmente Flaubert, il quale, in modo ancor più magistrale, ci presenta la complessità insondabile dell’educazione sentimentale nell’omonimo capolavoro.
A partire da cosa costruiscono il proprio immaginario erotico i nostri ragazzi? Nel tempo in cui Internet può offrire una serie infinita di video pornografici noi adulti pensiamo che bambine/i e ragazze/i se ne astengano? Qualche ricerca volta ad appurare quanto i più piccoli frequentino siti pornografici esiste e i risultati sono inquietanti ma prevedibili; mi limito ad una citazione da uno studio condotto da ricercatori del CNR: “ I corpi e le pratiche raffigurati nella pornografia tradizionale, che sono spesso prodotti da uomini e mirati agli uomini, forniscono immagini sessuali in cui gli uomini svolgono un ruolo dominante sulle donne, che a loro volta vengono presentate come oggetti sessuali con corpi perfetti e standardizzati.Questo tipo di contenuti trasmette messaggi stereotipati che hanno gravi effetti sulle convinzioni degli adolescenti sui ruoli di genere, in particolare sui ruoli di genere sessuale, con il rischio di portare a pratiche violente, come comportamenti coercitivi e aggressivi […] Il processo di oggettivazione del corpo delle donne non deriva esclusivamente dalla pornografia mainstream ed eterosessuale ma attraversa tutta la società”.
Se a queste osservazioni, che gettano soltanto uno sguardo sulla nostra complicata realtà, aggiungiamo il galoppante narcisismo, che trova la sua epitome nei selfie e nei video autoprodotti su Youtube, e la desensibilizzazione emotiva, con conseguente distacco dall’ambiente esterno causata dai giochi “sparattutto” (anche questo fenomeno studiato dai neuropsichiatri) avremo un numero sufficiente di elementi per comprendere che dodici ore in tre mesi di “educazione affettiva” sono un pannicello caldo, che serve soltanto a caricare la scuola di una ulteriore responsabilità, La pressione sociale che oggi subisce un bambino piccolo è enorme rispetto a pochi decenni fa, prima che ssi affermasse l’invasività del mondo virtuale. A chi dice che “indietro non si torna” bisogna rispondere che gli adulti devono farsi carico dei potenziali danni prodotti sulla psiche dei loro figli da un apparentemente innocuo smartphone. Se lasciamo i più giovani a sè stessi, i più deboli cederanno, introiettando modelli di comportamento pessimi. Come adulti abbiamo un imperativo morale: sottrarre i bambini e i ragazzi alla colonizzazione delle loro menti attraverso le nuove tecnologie.
Dobbiamo riportarli al silenzio e alla riflessione, momenti imprescindibili per giungere al rispetto dell’altro, di chi è diverso da noi. Si tratta di un lavoro molto lungo e che presume coesione sociale e l’impegno, in generale, di tutti gli adulti. Pensiamo davvero che la nostra attuale società così com’è, con un tasso sempre crescente di diseguaglianze, che accetta il sacrificio umano di tre vittime immolate sull’altare pagano del lavoro, soggiogata dall’idea di profitto, possa predicare la nonviolenza e il rispetto di genere? Nulla cambierà sino a quando non si affermerà una maggior equità sociale. Nel frattempo, noi adulti educatori (noi tutti, non soltanto gli insegnanti) seguiamo l’indicazione di Goffredo Fofi, salviamo gli innocenti, allontanandoli dalle passioni tristi che, purtroppo, invadono la loro giovane esistenza.
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C’era una volta la scuola che insegnava…. ultima modifica: 2023-12-14T05:56:31+01:00 da