Vanity Fair, 11.4.2021.
La scuola ci salverà. Dacia Maraini ne è talmente convinta da scegliere di titolare il suo nuovo saggio pubblicato da Solferino curato da Eugenio Murrali, un compendio di articoli e racconti brevi pubblicati sui quotidiani e sulle riviste negli ultimi trent’anni, proprio così: La scuola ci salverà. Cercare di risollevare le sorti di un’istituzione che Maraini considera il metronomo del progresso di qualsiasi Paese del mondo è, infatti, la sfida più grande che il governo italiano sta cercando di sanare dopo lo scoppio della pandemia, quando l’entusiasmo e la vitalità degli studenti che la scrittrice incontrava in presenza in più di un’occasione si è appiattita dietro lo schermo luminescente e claustrofobico della Didattica a Distanza, costringendo i ragazzi e gli insegnanti a ingegnarsi per cercare di ritrovare quello che oggi sembra sempre più lontano e opaco: il contatto.
La scuola, però, può fare la differenza, insiste Maraini. Soprattutto nei momenti di crisi. I suoi articoli in difesa del buon insegnamento e i racconti L’esame, Il bambino vestito di scuro e Berah di Kibawa sono le testimonianze più vive di un impegno costante rivolto alla tutela dei diritti e al miglioramento dei modelli di apprendimento, all’urgenza di tenere sempre accesa la luce sui ragazzi che sono il nostro presente e il nostro futuro. Impegno che Maraini, dall’alto della sua esperienza, continua a portare avanti dimostrandoci quanto la scuola, negli ultimi trent’anni, sia cambiata e si sia evoluta, rappresentando sempre e comunque la speranza più concreta dalla quale ripartire.
Qualche anno fa scriveva che «la scuola ha perso in prestigio e carisma». Oggi qual è il suo stato di salute, secondo lei?
«Dal punto di vista istituzionale non è molto migliorata la scuola. Le hanno tolto prestigio e consistenza. Sembra più un luogo per imparare un mestiere che un luogo essenziale e formativo per creare un cittadino consapevole e responsabile».
La DAD ha raffreddato l’apprendimento e ha reso molto difficile l’interazione tra gli studenti e gli insegnanti: quali ripercussioni potrebbe avere sui ragazzi dopo che hanno perso, per diversi mesi, il contatto tra loro in fasi così delicate come l’infanzia e l’adolescenza?
«Se si tratta di pochi mesi, si recupera facilmente. Il guaio è che questo virus imprevedibile e insinuante ha l’aria di volere restare a lungo mandando per aria tutte le nostre buone abitudini. Questo renderà le cose difficili. Non solo per i ragazzi, ma anche per gli insegnanti, per i dirigenti, per i genitori e così via».
Molti ragazzi non hanno la possibilità di connettersi o perché sprovvisti di computer o perché sprovvisti di wifi: si è fatto e si sta facendo abbastanza per tutelarli?
«La scuola e, dietro la scuola, lo Stato dovrebbero farsi carico degli studenti più poveri e mettere a disposizione i computer. Non è una spesa così enorme come si pensa. Il mercato tecnologico è in continuo movimento e c’è gente che cambia computer ogni anno, il banco è pieno di usati in ottimo stato messi in vendita a poco prezzo. Non c’è bisogno dell’ultimo modello perfetto, basta una macchina che funzioni».
I ragazzi di oggi chiedono di essere presi sul serio: perché questa esigenza è più forte in loro che in quelli di ieri?
«Proprio perché la scuola ha perso il suo prestigio dopo anni di trascuratezza, di non investimenti, è chiaro che i ragazzi si sentono presi poco sul serio».
Mi ha colpito molto il fatto che, da bambina, leggesse i romanzi in classe: i suoi genitori lo sapevano? Li infilava nella cartella di nascosto?
«I miei genitori non mi controllavano capillarmente. La loro educazione era basata sulla responsabilità. L’importante era che non mi comportassi in maniera da vergognarmi di me stessa. Non mi sembrava di dovermi vergognare se leggevo importanti libri di storia e di antropologia quando le lezioni si facevano noiose e ripetitive».
Questo presuppone che fosse spesso distratta?
«Leggevo quando mi annoiavo. Molti professori erano incapaci di comunicare e spesso erano annoiati loro stessi dalla materia che ripetevano senza calore né vero interesse. Comunque tendevo l’orecchio e, se l’argomento entrava nel vivo, ascoltavo. Non ero del tutto assente».
Il professore d’Italiano del liceo di Palermo le disse che «leggere troppi libri le avrebbe sfasciato la testa».
«Era un pessimo professore che, evidentemente, si annoiava a insegnare. Ricordo che spesso dava un tema, tanto per farci stare tranquilli, e poi si metteva a leggere il giornale».
Il fatto di aver cambiato tante scuole, da Firenze a Roma fino a Palermo, può avere influito sulla sfortuna di aver avuto pochi professori davvero meritevoli come la signorina Gonzales, che lei ricorda con grande affetto?
«No, ho avuto diversi insegnanti preparati e appassionati. Ma erano sempre una minoranza. Per esempio la matematica, che odiavo, mi è è diventata cara grazie al professor Pagano che sapeva comunicare la sua passione per la materia. Io credo che si insegni per osmosi e non per costrizione. Gli studenti fuggono dalle costrizioni, le trovano odiose e quindi odiosa la materia che devono studiare per forza. Se, invece, un insegnante ama la sua materia e ci si immerge con passione, riuscirà a contagiare i ragazzi, appassionandoli all’argomento, che sia storico, o geografico, o letterario o scientifico».
Su questo passaggio degli «insegnanti impegnati» ha insistito parecchio in questi anni: tornando alla DAD, secondo lei c’è il rischio che l’impegno di un professore venga meno anche per una questione di mezzi?
«Naturalmente può succedere. Ma, per quanto ne so, gli insegnanti hanno affrontato con generosità e impegno l’insegnamento a remoto facendo acrobazie per adeguarsi a uno strumento che conoscevano poco. A volte, però, è stato anche uno stimolo per approfondire di più le loro materie, per conoscere meglio gli alunni e la loro condizione familiare. Certo è mancata la vicinanza, il senso meraviglioso della voglia di apprendere collegialmente , mettendo insieme socialità e studio. Ma qualcosa rimarrà di questo nuovo strumento di comunicazione anche nella scuola, anche se solo come possibilità di raggiungere gli studenti più isolati in luoghi dove non c’è scuola».
Parlando dell’insegnamento dell’inglese nella scuola, a un certo punto scrive che il nostro è un Paese «che ama e cura poco la propria lingua». Negli ultimi anni il dibattito sulla lingua italiana, dall’asterisco utilizzato per la normalizzazione di genere a polemiche più fresche come «direttrice/direttore» è molto attuale. Fin dove può spingersi, secondo lei?
«La lingua è un organismo vivente e muta in continuazione. Ma non va involgarita e strappata e umiliata come si fa spesso oggi, anche con l’introduzione non necessaria di termini inglesi che finiscono per metterci in una condizione di servilismo linguistico. Un paese vivo trova le parole nella sua lingua per nominare le cose, i sentimenti, le idee nuove».
Chiudo con una nota di tenerezza: quando cita Corro felice, spiega che l’abbraccio agli studenti che incontra sembra la prosecuzione di quello che non è riuscita a dare a suo figlio. Ricorda il momento in cui questa «terapia» dell’incontro con i giovani ha funzionato?
«Funziona sempre quando vado nelle scuole. Credo che i ragazzi sentano che mi interesso veramente a loro, alle loro idee, alle loro emozioni. Infatti di solito dialogo con loro, non faccio conferenze. E le risposte sono sempre buone. Credo che sentano l’affetto – che non so se venga dal figlio perduto – ma è sincero e vitale».
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