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di Claudio Giunta, 23.5.2017
– Sulla Domenica del Sole 24 ore del 7 maggio Mario De Caro e Pietro Di Martino perorano la causa delle didattiche disciplinari nella formazione dei futuri insegnanti. «È dunque indispensabile – scrivono – che almeno la metà dei 24 crediti didattici richiesti per accedere al triennio formativo riguardino le specifiche didattiche disciplinari (didattica della matematica, didattica delle lingue, didattica della filosofia, ecc.) e siano impartite dai docenti di quelle discipline che abbiano maturato conoscenze specifiche di didattica disciplinare».
Condivido questo punto di vista: conoscere la propria disciplina è il primo requisito per chi aspira a fare l’insegnante, ma non è l’unico. Soprattutto per chi andrà a insegnare nella scuola secondaria di primo grado, una buona formazione nel campo della didattica – il campo del come, diciamo, anziché del cosa – è opportuna. Alle osservazioni di De Caro e Di Martino vorrei aggiungerne qui due mie, due osservazioni che sono poi due dubbi, uno meno uno più grave, che mi sono venuti in questi anni occupandomi appunto di letteratura e di didattica della letteratura.
Il primo dubbio, il meno grave, è il seguente. Affidando loro i corsi in Didattica della matematica, Didattica delle lingue, Didattica della letteratura eccetera, De Caro e Di Martino presuppongono l’esistenza di docenti universitari di matematica, di inglese, di letteratura «che abbiano maturato conoscenze specifiche di didattica disciplinare», ma questa è forse una presupposizione troppo fiduciosa. Non tutti i docenti disciplinari hanno «conoscenze specifiche di didattica disciplinare»; non tutte le università hanno in organico docenti con queste competenze; e del resto, passando dagli uomini alle cose, non è affatto detto che tutte le discipline possano contare su un corpus condiviso di conoscenze didattiche che sia possibile apprendere e, a propria volta, comunicare ai futuri insegnanti: insomma, libri che insegnano chi era Dante Alighieri (o Marx, o Giulio Cesare) ce ne sono tanti, e ottimi, mentre i libri che insegnano come Dante va insegnato nelle classi tanti non sono, e quei pochi forse non sono nemmeno ottimi. Saper insegnare bene una disciplina a scuola è soprattutto una questione d’esperienza, di tentativi andati o non andati a buon fine: ma questa esperienza manca appunto, spesso, ai docenti universitari che dovrebbero spiegare ai futuri insegnanti non chi sono Dante, Marx o Giulio Cesare ma come le nozioni e le idee relative a questi oggetti vadano comunicate agli scolari. Dovremo fidarci del metodo didattico di docenti che non sono mai entrati in una classe scolastica in tutta la loro vita? Forse sarebbe più utile organizzare dei seminari – non dei corsi di decine e decine di ore – con bravi, selezionati insegnanti della primaria e della secondaria che dicano ai loro futuri colleghi che cosa hanno imparato tra i banchi.
Il secondo dubbio, il più grave, è il seguente. La nuova normativa che regola la formazione degli insegnanti per la scuola secondaria prevede che chi vorrà accedere al corso triennale post-laurea dovrà aver acquisito 24 crediti in «discipline antropo-psico-pedagogiche e metodologie e tecnologie didattiche». Ora, la mia personale esperienza, per quanto riguarda questo genere di competenze, è molto negativa.
I candidati che hanno superato l’esame finale del TFA a cui ho chiesto un giudizio sulle lezioni di Didattica generale che avevano seguìto durante l’anno di corso mi hanno dato più o meno tutti la stessa risposta: lezioni per gran parte inutili; nozioni e concetti di buon senso promossi al rango di cervellotiche Teorie; osservazioni anche giuste, ma comunicabili in venti parole, diluite in un estenuante, fumosissimo metadiscorso. Quasi tutti gli insegnanti in ruolo a cui ho chiesto un parere sulle indicazioni/prescrizioni relative alla didattica che vengono somministrate dal ministero, o nei corsi di aggiornamento, mi hanno dipinto lo stesso quadro sconsolante: un’alluvione di parole, schemini, istogrammi, freccine, tutto un variopinto apparato effimero dal quale si fatica a dedurre qualcosa che possa essere speso nella pratica, anche solo un consiglio per migliorare la lezione, l’atmosfera della classe. A queste testimonianze di seconda mano posso aggiungere la mia. Ho passato giornate a leggere alcune delle più recenti pubblicazioni nel campo della didattica e della pedagogia scolastica, e per una parte ho avuto anch’io l’impressione di un gigantesco apparato teoretico mobilitato in vista di un impalpabile beneficio pratico; per un’altra parte devo confessare che spesso non ho capito quello che l’autore o l’autrice stavano cercando di spiegarmi. Problema mio, che non sono portato per la Pedagogia e la Didattica generale; ma problema anche di quelle discipline e dei suoi esperti, se non riescono – nonché a convincere – a farsi intendere da coloro che, come me, sarebbero i loro primi e anzi unici destinatari: gli insegnanti.
Ripeto: questo non è il lamento del disciplinarista che teme che le ore di Letteratura italiana vengano rosicchiate prima da Didattica della letteratura italiana e poi da Didattica generale. Non dubito che sia necessario imparare a insegnare, non dubito che – entro certi limiti – sia possibile, e che le «discipline antropo-psico-pedagogiche» possano aiutare a raggiungere questo obiettivo. Vorrei però che gli specialisti e gli esperti del MIUR riflettessero meglio sul contenuto di questa ‘Didattica generale’, e sul contenuto dei libri che la codificano per gli aspiranti docenti, perché quello che ho sentito e che ho letto non mi pare vada bene.
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Supplemento culturale del Sole 24 ore, 21 maggio 2017
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