, il Sussidiario, 5.12.2018
– Studenti con Dsa: cosa pensare e cosa fare? Dialogo tra una preside e uno psicologo scolastico intorno alle difficoltà di apprendimento.
Un collega mi ha raccontato che i genitori di uno studente di terza media gli hanno presentato gli esiti dei test per i disturbi di apprendimento eseguiti in un centro diagnostico specializzato, dicendosi finalmente rassicurati e accusando la scuola di non essere stata in grado di diagnosticare il vero problema del figlio che faceva tanta fatica ad apprendere. Eppure questi stessi genitori erano stati più volte convocati dai professori per le difficoltà di apprendimento del figlio nell’arco dei primi due anni di scuola media; difficoltà di vario genere, sia di apprendimento sia di inserimento.
Questo episodio mi ha fatto sorgere alcune domande sul rapporto tra famiglia, scuola e specialisti in relazione alle difficoltà di apprendimento. Difficoltà di questo genere sono sempre state evidenti e si affrontavano “artigianalmente” a scuola anche prima che si formalizzasse la normativa sui Dsa e si usasse misurarle: adesso che esistono una normativa, associazioni e centri specialistici dedicati, cosa cambia nella didattica e nella relazione educativa con lo studente? Risponde Luca Luigi Ceriani, psicologo e psicoterapeuta. Già professore di psicologia clinica e dello sviluppo nella facoltà di medicina dell’Università di Brescia, è attualmente supervisore pedagogico per le attività di tirocinio nel corso di laurea in scienze dell’educazione dell’Università Cattolica di Milano.
Perché è diventata così necessaria una misurazione quantitativa dei deficit di apprendimento e quali vantaggi comporta?
La prima considerazione da fare è che la normativa sui Dsa ha in qualche modo “salvato il sistema”. Di fronte all’oggettiva difficoltà di apprendimento o disturbo che dir si voglia — sulla differenza semantica tra difficoltà e disturbo diremo dopo — occorre intervenire. Però o si interviene in modo competente e quindi alla scuola viene riconosciuta una capacità specifica nel rilevamento del problema, nella riabilitazione e nella didattica, oppure la competenza passa al clinico. L’errore che è stato fatto è proprio quello di aver inserito una frattura sull’intervento. L’insegnante si è sempre accorto delle difficoltà e dei limiti degli studenti, e la risposta che ha sempre dato al problema è una risposta di tipo didattico ed educativo. Si è voluto invece sostenere che la scuola su queste difficoltà non fosse più efficace, adeguata. Così si è introdotta la clinicizzazione del disturbo. Quando si parla di dislessia, disgrafia, disortografia, discalculia si indica l’esistenza di qualcosa di patologico che impedisce l’apprendimento. Ma se è qualcosa di patologico a impedire l’apprendimento, di conseguenza lo studente viene deresponsabilizzato e l’insegnante deve riconoscere un limite che può compensare e considerare nella valutazione, ma che non può essere superato. All’insegnante è attualmente chiesto di prendere atto dei limiti strutturali, addirittura neurofisiologici o neurobiologici di un ragazzo. Ma questo è il contrario dell’azione didattica! Se viene introdotta la nozione di disturbo si “salva” lo studente che non è ritenuto responsabile delle sue prestazioni, che sono invalidate dalla malattia; il genitore che non è responsabile di ciò che il ragazzo fa, l’insegnante perché lo si conferma nel fatto che, esistendo una patologia, non è più di sua competenza l’apprendimento del ragazzo. Cosa può fare l’insegnante di fronte al problema di apprendimento? Può accettarlo, può cambiare la programmazione, può cambiare il modo di relazionarsi con il ragazzo, ma di fatto non può risolverlo: la scuola è esautorata dal suo compito primario.
Cosa cambia considerare tali deficit “difficoltà” invece che “disturbi”?
Il termine “difficoltà” sottolinea anche la benignità del deficit. Invece si è voluto far passare il termine “disturbo” per sottolineare che è una forma mentis, una forma del pensiero, che ha canoni propri, caratteristiche proprie. Un funzionamento non minore ma diverso. In realtà non è vero: le stesse prove che si utilizzano per diagnosticare fanno riferimento a uno standard prestazionale. Se la diagnosi fosse fatta su una diversità di pensiero, per poterla fare, non si userebbe come riferimento lo standard. Quindi in sede di diagnosi se ne fa una questione quantitativa e poi si richiede alla scuola di farne una questione qualitativa. È una contraddizione assoluta, che avvantaggia solo il clinico, permettendogli di invadere l’ambiente scolastico.
L’aumento delle difficoltà di apprendimento è però un fatto evidente…
La realtà dei fatti ci porta questo dato da cui non possiamo prescindere, però un conto è cercare l’origine del problema, per esempio, nel fatto che questa generazione ha appreso in modo iconico prima che uditivo, che ha guardato l’immagine prima che ascoltare la parola. E già questo dal punto di vista epistemologico dovrebbe spostare il problema. Certo che se continuiamo a insistere sul fatto che il deficit è neurobiologico, non andiamo da nessuna parte: è come dire “è così e non può essere diverso”. Oppure “è così e quindi adattiamo la proposta sul deficit”. Per assurdo: si sostiene che questi ragazzi abbiano una dotazione cognitiva normale o addirittura superiore alla media. Vero. Tanto che per poter fare una diagnosi di Dsa bisogna discriminare in senso differenziale, riconoscendo il fatto che non c’è una debolezza mentale, una ipodotazione.
Molti sostengono che una diagnosi precoce può risolvere il problema delle difficoltà di apprendimento.
O la diagnosi precoce permette un intervento riabilitativo che porta a dei risultati concreti nel breve, medio periodo o inevitabilmente lo studente utilizzerà i cosiddetti vantaggi secondari del disturbo e si accontenterà dell’etichettamento. Perché l’esito della clinicizzazione è esattamente l’etichettamento.
Tutte le diagnosi, che ormai i docenti grosso modo hanno imparato a leggere, propongono nelle conclusioni degli strumenti compensativi e dispensativi, utilizzando i quali gli studenti con Dsa dovrebbero raggiungere gli stessi obiettivi di apprendimento della classe. Invece pur proponendo pc, calcolatrici, tempo aggiuntivo, parcellizzazione dei contenuti, interrogazioni programmate, mappe concettuali e quant’altro … lo studente spesso non apprende! A volte poi è lo studente stesso a non voler usare tali strumenti per non sentirsi diverso dai compagni. Si ha pertanto l’impressione che la parte riabilitativa di tali diagnosi sia un po’ standardizzata, proponga per qualsiasi caso gli stessi strumenti compensativi, senza badare al livello di gravità o alla specificità della difficoltà: qualche giorno fa un docente mi domandava come mai dovesse permettere a uno studente disortografico l’utilizzo della calcolatrice, o a un discalculico l’audiolibro, come prescritto dagli specialisti… E in tutto ciò i docenti si scontrano con la pretesa della famiglia, che considera un fatto meccanico il successo formativo una volta forniti determinati strumenti.
(1 – continua)
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