Ecco perché ChatGPT e universi paralleli non dovrebbero farci perdere di vista la coscienza

di Francesco Provinciali, Start Magazine, 6.5.2022.

La coscienza, come scriveva Eraclito, è “intima libertà dello spirito” e quando partiremo alla conquista di nuovi ancoraggi vitali nello Spazio non dovremo dimenticare l’insita differenza che sappiamo esserci tra ciò che è bene e ciò che è male. L’articolo di Francesco Provinciali

Gilda Venezia

Tra i suoni gutturali degli antenati degli ominidi e le applicazioni di intelligenza artificiale di ChatGPT (in attesa degli sviluppi che vivremo sulla via del Metaverso), corrono tra i 5 e 7 milioni di anni. L’homo sapiens compare sulla scena del mondo circa 300mila anni fa, quello di Neanderthal 100mila dopo: un abisso protostorico immenso se comparato alla riconversione digitale, ai robot e alle interconnessioni tra reale e virtuale nei comportamenti umani.

Ripensavo a questo distanziamento siderale che ci separa dalle origini della vita umana sul pianeta leggendo il libro “I buchi bianchi – Dentro l’orizzonte” di Carlo Rovelli, proiettato nell’esplorazione dell’immensità dello Spazio per spiegare come le stelle bruciando generano i buchi neri sprofondando nel proprio orizzonte ma vivendo ancora miliardi di anni e i buchi bianchi ne sono la speculare rappresentazione ribaltando l’immaginario punto di osservazione e confermando le equazioni di Einstein, da un punto di vista opposto. Un agile volumetto che merita un’adeguata recensione.

Nello stesso tempo stavo sfogliavo sulla rivista Antiquity i risultati di una ricerca dell’Università di Edimburgo sull’uso e l’evoluzione strumentale della clava nell’Età della Pietra.

L’uomo osserva la storia partendo dal proprio presente ma può utilizzare opportunamente l’universo di conoscenze di cui dispone. Così come noi possiamo agevolmente procurarci una miriade infinita di comparazioni, similitudini e congetture tra ieri, oggi e domani.

Oltre l’indagine conoscitiva che conserva il suo fascino e non ha confini spazio-temporali, mi interessano, i comportamenti e le dinamiche delle relazioni umane, gli stili comunicativi e il loro valore simbolico rispetto alle invarianti e alle variabili dell’evoluzione della specie.

La differenza che corre tra l’uomo che usava la clava nell’Età della Pietra e lo studente allucinato del college americano che fa strage di alunni e professori riguarda la consapevolezza del gesto rapportata ai due diversi contesti di vita: in genere il primo uccideva per sopravvivere e procacciarsi il cibo, mentre il secondo – salvo cervellotiche spiegazioni sulla capacità di intendere e di volere – compie in genere un gesto di deliberata violenza. Nella preistoria non esistevano regole, oggi ne esiste una pletora infinita: il primo problema è se sono giuste, il secondo se vengono rispettate.

La domanda che si pone riguarda il concetto di bene e di male, allora e adesso. A cosa sono serviti millenni e secoli di lezioni della storia se la violenza fisica e simbolica si perpetuano all’infinito? Se ci fosse progresso in ogni campo dei comportamenti umani, l’etica applicata alla vita dovrebbe generare uomini migliori. Non è così. Basti pensare ai milioni di morti a causa delle guerre e della crudeltà degli ultimi cent’anni, alle endemiche condizioni di povertà estrema, alla fame e alle malattie, alle migrazioni disperate, alla crescita demografica che satura la sostenibilità del pianeta, ai soprusi e alle nascoste solitudini.

Eppure abbiamo avuto testimonianze di fede e di pace, annoverando poeti, artisti, musicisti, filosofi, educatori che ci hanno insegnato il gusto del buono e del bello, abbiamo conosciuto esempi di eroismo e altruismo, di amore per il prossimo, di rispetto per la dignità e l’identità della persona e per la giustizia sociale, che hanno elevato l’infanzia come età delle protezioni e delle tutele, la figura femminile come espressione più autentica dei valori che nobilitano la vita e il genere umano, la ‘vecchiaia’ (come la definisce senza mezzi termini Vittorino Andreoli), quale prezioso scrigno colmo di esperienza, saggezza, ricapitolazione pedagogica della vita.

Eppure lungo la linea infinita della presenza umana sulla Terra, dalla notte dei tempi al presente spesso asfissiante e sfuggente, fino all’immaginario futuro che ci proietta oltre la galassia, verso l’Universo incommensurabile degli anni luce non si riesce a pensare ai fatti, alle azioni, ai comportamenti o agli indefinibili scenari che verranno senza fare ricorso alle categorie etiche del bene e del male. La presenza umana sul pianeta si fa densa fino a lambire i confini della sostenibilità: demografica, generazionale, riguarda l’usura ambientale e la ribellione che la natura oppone agli algoritmi della crescita senza confini. Per questo, mai come ora, si guarda lo Spazio e lo si esplora: verrà probabilmente il giorno – infinitamente lontano – in cui dovremo trasferire la vita dalla Terra ad un “altrove”: siamo, oggi, nella fase preistorica di un futuro indefinibile, poiché in diversa misura conosciamo o possiamo descrivere solo il 4% dell’Universo.

Eppure se l’uomo non cambierà la sua costituzione “ontologica” (il suo essere) – anche se la pervasività della tecnica è irreversibile – la sua esistenza continuerà ad oscillare tra i confini etici del bene e del male. Viviamo un’epoca in cui anche il concetto di identità – come sintesi di natura e cultura – rischia di essere minato alla radice della sua matrice biologica e unitaria: ove ciò accadesse finiremmo per assemblare un’umanità ondivaga, senza approdi e senza orizzonti di autorealizzazione esistenziale. È importante ricordare gli studi di Ernst Cassirer che assumono a fondamento e oggetto di ripensamento della critica kantiana, soprattutto in funzione di una rivisitazione del concetto di comunicazione simbolica come fenomenologia della conoscenza: “non possiamo cercare il vero “immediato” là fuori, nelle cose, ma dobbiamo cercarlo in noi stessi”.

Quando partiremo alla conquista di nuovi ancoraggi vitali nello Spazio porteremo insiti nel nostro agire la coscienza di ciò che è bene e di ciò che è male, non dovremo dimenticare nella nuova “Arca di Noè” questo bagaglio culturale che riguarda l’illuminazione della coscienza, anche per un solo attimo, intesa come “intima libertà dello spirito”. L’aveva capito Eraclito (535 A.C-475 A.C) e l’aveva scritto nel suo unico libro che si conosca: “Sulla natura”.

L’aveva ripreso Martin Heidegger, incidendolo come aforisma sull’architrave della sua baita di montagna nella Foresta nera: “il fulmine governa ogni cosa”.

Credo che la folgorazione di quell’attimo di bagliore intenso possa e debba – ancora oggi e in futuro, anzi “sempre” – farci capire che il vero discrimine – simbolico e reale – di ogni azione umana risiede nella coscienza morale che la sottende.

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