– Insegnanti e digitalizzazione, la scuola entra nel futuro grazie a pc, tablet e smarthphone. E’ un percorso che serve davvero? E’ una domanda difficile ed ognuno ha la sua verità: esistono i nostalgici ed i progressisti. Un contrasto non facilmente risolvibile, ma a questa domanda ha tentato di trovare una risposta il filosofo e scrittore Umberto Galimberti. In una sua intervista pubblicata dal Giornale di Sicilia, il filosofo si esprimeva così:
“Esorterei i professori a usare meno il computer – spiegava prendendo una netta posizione -. A che serve? Gli studenti, nativi digitali, ne sanno più di chi dovrebbe insegnare loro l’informatica. Ai ragazzi internet fornisce, dopo anni di guerra al nozionismo, un’infinità di informazioni slegate tra loro, ma non regala senso critico, connessione dei dati e, quindi, conoscenza. I maestri hanno il compito di sviluppare il senso critico e mettere in connessione i dati.
Questi ragazzi bisogna educarli al sentimento per evitare l’analfabetismo emotivo: la base emotiva è fondamentale per distinguere tra bene e male, tra cosa è grave e cosa non lo è. E bisogna farli parlare in classe. Il linguaggio si è impoverito. Si stima che un ginnasiale, nel 1976, conoscesse 1600 parole, oggi non più di 500. Numeri che si legano alla diminuzione del pensiero, perché non si può pensare al di là delle parole che conosciamo. E la scuola è il luogo dove riattivare il pensiero”.
“Una intelligenza convergente, che comporta il cercare la soluzione di un problema a partire da come il problema è stato impostato; invece l’intelligenza importante, quella cha fa andare avanti la storia, è divergente, e consiste nel risolvere il problema cambiando la sua stessa impostazione, capovolgendolo. Come, per esempio, ha fatto Copernico. In informatica devi trovare la soluzione secondo il programma informatico, altre possibilità non sono previste. Un metodo che svilisce l’intelligenza, trasformandola in esecutiva e non sviluppandone la parte creativa”.
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