di M.Lucivero e A.Petracca, Roars, 22.12.2022.
La ratifica da parte della VII Commissione Permanente (Cultura, Scienza e Istruzione) il 6 dicembre 2022 della decisione del nuovo governo di rinominare alcuni ministeri, tra cui quello dell’Istruzione e del Merito, che un tempo era della Pubblica Istruzione, non deve essere presa come una misura inessenziale nella vita politica del nostro Paese, ma ha un profondo significato dal punto di vista storico e socio-culturale. Si tratta di una iniziativa che obbedisce ad una precisa logica di risemantizzazione del reale, di ridefinizione dei confini linguistici entro cui la realtà deve avere uno ed un solo significato possibile, annichilendo ogni altro tentativo di lettura e interpretazione.
Storicamente la risemantizzazione unilaterale del reale, calata perlopiù dall’alto in maniera coercitiva e non, invece, intesa come l’esito di un processo decisionale collettivo e condiviso, si è presentata spesso come un primo e significativo atto politico di ridefinizione dell’orizzonte culturale di una società o di una comunità. Tutti i regimi, a partire da quello della Rivoluzione francese per finire a quello fascista e sovietico hanno elaborato, congiuntamente all’uso massiccio della forza, strumenti ideologici e linguistici per ri-nominare gli oggetti della vita quotidiana, le strategie politiche, le persone stesse, per mezzo di pronomi (Voi/Lei), apposizioni (camerata/compagno), fino alla ridefinizione dello stesso calendario. L’esigenza coercitiva di risemantizzare il reale da parte del biopotere imperante è la prima forma di rottura con il passato, un messaggio chiaro che nell’arco di una generazione riesce ad avere effetti pervasivi sulla società, così come ancora oggi in ambienti poco scolarizzati (e ciò non è casuale) l’uso del pronome Voi permane in maniera piuttosto diffusa.
È bene chiarire, tuttavia, che non è la risemantizzazione del reale un problema in sé, anzi che il linguaggio nel corso del tempo possa mostrarsi insufficiente ad esprimere la varietà dell’esistente in mutamento è una necessità non solo storico-evolutiva, ma esprime, soprattutto, lo sforzo di ampliamento progressivo dei diritti, delle libertà sostanziali (empowerment), la cui fruizione si è effettivamente ampliata nei secoli, ma, forse, ancora non del tutto.
Questa deriva neoliberista della società prestazionale, dunque, che vorrebbe fare del merito, non meglio che astrattamente definito, il puntello ideale di ogni contesto sociale e che trascina con sé, evidentemente, anche la scuola, luogo deputato a forgiare la forma mentis di future generazioni flessibili, se prima era abbozzata in maniera subdola e ufficiosa, nelle more di governi supertecnici e ipercompetenti incontestabili, adesso, invece, è piuttosto evidente. La legittimazione elettorale conferisce peso politico a indirizzi chiaramente neoliberisti e così diventa esplicito ciò che prima era solo implicito, cioè il tentativo di smantellare la scuola pubblica, quella dell’inclusione, degli ultimi, della lentezza dell’educare, per fare spazio alla scuola competitiva centrata sul merito, sulla valorizzazione, sulla prestazione sempre efficiente ed efficace.
Basterebbe rileggere le parole del Rapporto finale del 13 luglio 2020, scritto dal Comitato di esperti presieduto da Patrizio Bianchi, per comprendere la continuità neoliberista su cui convergono in relazione alla “scuola del merito” tanto lo schieramento dell’attuale sinistra, quanto quello della destra che convince e vince. Del resto, già nell’ambito delle misure atte a garantire la ripresa dal Covid-19, gli esperti del Rapporto finale, nominati dalla ministra Lucia Azzolina, ritenevano necessario «riassegnare centralità allo sviluppo delle potenzialità di ciascuno, trasformare ogni persona nel primo ingegnere di sé stessa (a partire dagli insegnanti)»[1].
La logica sottesa a questa nuova sbandierata concezione della scuola del merito, e alla tanto desiderata società meritocratica in generale, obbedisce ad un principio di prestazione legato alla continua e martellante necessità del soggetto di ottimizzare il proprio fare, un assunto che non era sfuggito al filosofo Michel Foucault sul finire degli anni ’70. Il filosofo francese nel suo Nascita della biopolitica, ravvisava un ripiegamento del soggetto su sé stesso, un inizio di cambiamento della gestione del potere, il quale, abbandonando le tecniche di dominio coercitivo da parte degli apparati repressivi di Stato, elaborava apparati molto più subdoli di controllo delle coscienze attraverso le tecnologie del sé, quelle che costringono il soggetto a diventare, con una incredibile eco rispetto al dettato del Comitato presieduto da Bianchi, «imprenditore di sé stesso»[2].
Foucault, tuttavia, muore nel 1984 e non può immaginare l’evoluzione del mondo dopo il 1989, tra caduta del muro di Berlino, crollo dell’Unione Sovietica e nascita del World Wide Web, eventi, questi ultimi, entrambi avvenuti nel 1991, da considerarsi a tutti gli effetti come spartiacque decisivi per il cambiamento della società e dell’economia globale al limitare del secondo secolo.
Dopo Foucault è il filosofo sudcoreano, naturalizzato tedesco, Byung-Chul Han in Psicopolitica a tracciare quelli che sono i passaggi cruciali che trasformano la società moderna del biopotere, caratterizzata dal dominio sui corpi attraverso la repressione, il controllo istituzionale, la coercizione, le istituzioni totali, nella società postmoderna neoliberale (e/o neoliberista), caratterizzata dalla prestazione, dall’ottimizzazione, dal merito, dall’eccessiva libertà che il soggetto, divenuto progetto, fatica a gestire.
È in questo quadro socio-culturale che si deve leggere il cambiamento in atto nella scuola pubblica, quella che deve puntare sul merito a partire dai e dalle docenti per terminare poi sugli alunni e sulle alunne, come dice Pietro Ichino, il quale ci spiega sulle pagine di Repubblica in che modo anche la sinistra deve credere al merito per valorizzare i figli delle famiglie meno abbienti.
Il merito diventa così la parola chiave per comprendere la transizione antropologica in atto nella nostra società, una trasformazione che valorizza l’homo faber, la prestazione, le opere, quasi come fosse un rigurgito calvinista. Il soggetto (da sub-iectus, posto sotto), sostiene Han, già connotato da un rapporto antropologico di assoggettamento, lascia il posto al progetto (da pro-iectus, gettato avanti), alla prestazione da talent show, di cui ha assunto la piena e angosciante responsabilità.
Ciò, aggiungiamo, avviene nel silenzio o con la complicità di apparati istituzionali, capaci di rigenerarsi all’interno di un processo di adiaforizzazione istituzionale. Un processo che informa pure gli apparati pubblici, fondandosi cinicamente, a partire dallo smantellamento del welfare state, dell’autonomia differenziata e dalla privatizzazione di servizi essenziali, sull’intreccio perverso tra la loro sottomissione a logiche di mercato iperliberiste e una ipocrita mistica della sollecitudine, una sorta di «lubrificazione dei rapporti sociali attraverso il sorriso istituzionale»[3], in realtà un malcelato ghigno dietro cui si cela l’irriducibile narcisismo della politica.
In un contesto siffatto, il ripiegamento del soggetto sul progetto determina una frattura abissale, che difficilmente risulterà ricucibile, tra la dimensione politica, sociale e civile dell’individuo, che viene lasciata alla competenza del tecnico, del professionista nel globale disinteresse, ma anche nella completa incapacità di penetrare nei suoi complessi meccanismi, da cui l’adiaforizzazione deresponsabilizzante, e la dimensione privata, che, invece, viene totalmente addossata al singolo.
Da qui deriva l’assunto fondamentale della società neoliberale, accettato perlopiù come un assioma indimostrabile e necessario, tanto quanto l’assetto economico neoliberista attuale: se l’individuo-progetto fa bene, allora egli viene valorizzato, premiato, può avanzare. Se, invece, l’individuo fa male, allora viene sanzionato, riprovato, castigato, subisce una diminutio, perché non conta la sua esistenza nuda, ma il suo mero fare, che è sempre fungibile, sostituibile da ciò che è più efficiente nella società flessibile, che rende anche giuridicamente più agevole il licenziamento mediante l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Ed è in questo continuo clima di pressione che la nostra società manda in tilt il cervello di milioni di persone, così come manda in tilt il cervello di milioni di studentesse e di studenti, generando quella che è l’attuale prospettiva della Psicoistruzione, vale a dire un regime scolastico ansiogeno, iperstressante, laddove la controparte alla valorizzazione del merito è la colpevolizzazione del demerito. Tutto ciò si inserisce perfettamente nel solco dell’attuale concezione dominante nella società neoliberista, per la quale la stessa povertà, la cui responsabilità non è da imputare che a sé stessi, subisce un pesante processo di colpevolizzazione.
La Psicoistruzione, appendice educativa inerente le politiche scolastiche di quella che viene definita Psicopolitica da Han, è lo specchio di una concezione della libertà personale che, da un lato, si mostra in una veste meramente formale e non sostanziale, dall’altro esprime un punto di vista pericolosamente individualistico, sganciato dalle forme cooperative e collettive di crescita della comunità scolastica, prima, e della società civile, dopo.
Da questo punto di vista, è psicotica anche la condizione in cui versano i docenti e le docenti della scuola pubblica, che devono orientarsi tra i richiami all’efficienza pedagogica di strategie didattiche come il cooperative learning, la peer education, la recente vulgata mediatica sulla scuola senza voti, da un lato, e la necessità di scremare, discriminare e catalogare, valutando e giudicando, per mezzo di prove parallele, test INVALSI e prove oggettive una massa informe di studentesse e studenti il cui futuro non è associato ad alcun progetto, se non quello della futura civiltà tecnologica, interpretata perlopiù come una necessità impellente.
Del resto, la Psicoistruzione, centrata sulla competizione e sulla valorizzazione del merito, si fonda sull’assunto, si diceva, di un concetto di libertà formale assolutamente in linea con la celebrazione romantica e giustificazionista del capitalismo. La libertà di potere qualsiasi cosa, la libera capacità del talento di diventare “imprenditore di sé stesso”, che pure è una possibilità che si è aperta rispetto alla società moderna cristallizzata in caste, ceti e classi sociali prive di mobilità, in realtà grava l’individuo del fardello del fallimento della sua impresa, che è la controparte più cospicua rispetto a quell’uno che riesce a trovare la quadra della valorizzazione per proprio merito e del proprio talento. Questa libertà illimitata di potere diventare ciò che si vuole, in realtà genera un’ansia altrettanto incontrollata, crea un ripiegamento del soggetto su se stesso e, alla fine, si tramuta in costrizione: «Al momento, questa libertà – che dovrebbe essere il contrario della costrizione – genera essa stessa costrizioni. Disturbi psichici come depressione e burnout sono espressione di una profonda crisi della libertà: sono indicatori patologici del fatto che oggi si rovescia in costrizione»[4].
Ecco che nel regime della Psicoistruzione, quello che necessita nella scuola – ce ne accorgiamo quotidianamente e anche con una certa urgenza – della figura dellə psicologə, si punta ad educare i ragazzi e le ragazze alla Resilienza, ma non ci si accorge che la Resilienza è il problema, non la soluzione. È proprio nel significato profondo del concetto di Resilienza, che rimanda alla capacità soggettiva di superare da soli eventi traumatici, che si annida la trasformazione antropologica in atto. La Resilienza pone un eccessivo peso sul progetto, generando ansia da prestazione, stress, burnout, depressione e, al tempo stesso, annulla il potenziale trasformativo che il soggetto può realizzare a partire dalla realtà circostante, che, invece, viene lasciata intatta, giustificata per quello che è. Ed è proprio in questa subliminale risemantizzazione del reale, a partire dalla Resilienza, che abbiamo da tempo smarrito il senso specifico di ciò che un tempo chiamavamo Resistenza: «In ciò consiste la speciale intelligenza del regime neoliberale: non lascia emergere alcuna resistenza al sistema»[5].
E, tuttavia, stando ai dati Oxfam, non solo non vi è alcun tipo di ascensore sociale nelle nostre società, immobilizzate nei meccanismi di riproduzione culturale e sociale, come ammoniva già Bourdieu[6] negli anni ’70, ma in tutti i paesi del mondo le diseguaglianze economiche, in termini di patrimoni posseduti e redditi percepiti, non diminuiscono, anzi crescono vertiginosamente e merito, meritocrazia e affini costrutti ideologici, sbandierati dalla demagogia politica in modo trasversale, non sono serviti e non serviranno a ridurre la forbice delle disuguaglianze esistenti. Né, tantomeno, richiamarsi ai presunti miracoli della società meritocratica servirà ad arginare, frenare, o anche solo limitare, l’impatto di crisi ricorrenti di tipo economico, pandemico o climatico sulle fasce medio basse della popolazione mondiale, compresa, ovviamente, quella che vive in Italia.
Già in tempi pre-pandemici i dati mostravano come più della metà della ricchezza mondiale fosse ereditata. Nell’ultimo rapporto Oxfam del gennaio 2022 viene messo in evidenza come «i 10 uomini più ricchi del mondo detengono una ricchezza sei volte superiore al patrimonio del 40% più povero della popolazione mondiale»[7] (parliamo di 3,1 miliardi di persone). Non solo, se il nostro sguardo si sposta dalle statistiche sui patrimoni alle statistiche sui redditi, allora, si può notare che la situazione delle disuguaglianze economiche si acuisce drammaticamente.
Cos’altro ci vuole, allora, per capire che tutto ciò che ruota intorno al concetto del merito e alla sua mistificazione ideologica centrata sulla meritocrazia non è che un bluff per dare l’illusione che anche il figlio e la figlia del calzolaio possano arrivare al successo?
Con uno squilibrio sociale ed economico di partenza così enorme, con queste disuguaglianze così profonde, propinare il ritornello per cui «solo una società meritocratica ci salverà!» fornisce, al massimo, una giustificazione ideologica che funge da doping per miliardi di sventurati individui impegnati nello sforzo agonistico di una competizione estenuate, portata avanti, spesso senza esclusione di colpi, con l’illusione di poter migliorare le proprie sorti.
Ma, sorpresa!, per la stragrande maggioranza delle persone che non appartengono alle élite, la gara non si conclude mai e il premio non c’è: nonostante ci si possa mostrare meritevoli e capaci, la ricchezza rimane concentrata nelle mani di pochi e, nonostante le ampie genuflessioni aziendalistiche e nei confronti dei propri dirigenti scolastici, in verità i redditi percepiti, al di là della retorica politica, non subiscono mai aumenti di rilievo (nemmeno in relazione al recupero dell’inflazione), non ci sono meccanismi concreti che permettano, soprattutto nel settore pubblico, passaggi di grado da sottoposti, dipendenti, impiegati a dirigenti.
Il gioco di prestigio, ovviamente, riesce meglio se ad essere cullati dall’ideologia del merito, che trasforma ogni affare in pseudocompetizioni, da cui ricevere onori o oneri, premi o castighi, apprezzamenti o dileggi, sono le studentesse e gli studenti sin dalla più tenera età.
E allora, già nel pieno dei meccanismi di ciò che abbiamo definito Psicoistruzione, cioè un insieme composito di politiche scolastiche che ha ricadute su tuttə gli/le attori/attrici coinvoltə nel processo educativo e di un atteggiamento culturale coltivato supinamente da soggetti che tendono a fare della scuola un incubatore di ansie, stress e situazioni psicologicamente destabilizzanti a causa dell’eccessivo peso dato ai risultati delle prestazioni, perché non lanciare un messaggio forte e chiaro a livello politico? Perché non rinominare il Ministero, che un tempo era legato alla Pubblica Istruzione, aggiungendo accanto a “Istruzione” anche il “Merito”? Perché non stabilire, se non proprio un’uguaglianza (al momento ‘e’ non è ancora usato come copula), comunque un necessario legame, come se l’istruzione da sola non significasse più alcunché di preciso e avesse bisogno di una stampella per esplicitare ciò che necessariamente le serve, cioè il merito?
Eppure, romanticamente, vorremmo ribadire che l’Istruzione non è serva, non ha bisogno di asservirsi al Merito e questo già in relazione alla funzione docente: non è la quantità misurabile di progetti istruiti per accaparrarsi i fondi PNRR, PON, ecc., che rende il/la docente meritevole, ma deve essere la qualità non misurabile della relazione educativa nella classe a orientare il suo lavoro quotidiano, da cui i ragazzi e le ragazze devono cogliere semi che germoglieranno in tempi distesi e imprecisati.
Come abbiamo già sostenuto, il cambiamento in atto con il Ministero dell’Istruzione e del Merito si inserisce in un processo di risemantizzazione del reale funzionale a curvare il reale verso una realtà che non esiste, ma che, nominandola, cerca di darle corpo. Si tratta di una visione non ideologica della realtà, che tende ad orientare i soggetti verso un premio, eccitati alla competizione dalla ferma convinzione che possano davvero essere loro quell’uno su mille che ce la fa. Ed è una lusinga che assume, di volta in volta, la forma di un salario più alto, una posizione più prestigiosa, un premio di produzione, un gadget aziendale irrinunciabile, ma che poi inevitabilmente delude e induce alla colpevolizzazione, all’eccessiva introspezione, a rimuginare su cosa si è sbagliato.
La beffa, dunque, è che, alla fine della competizione, il premio semplicemente non c’è per coloro i/le quali, conformandosi alle richieste sempre rinnovate, si sono lanciati nell’impresa titanica di adeguarsi ai target richiesti. Ciò che si realizza è, al più, la permanenza nella medesima condizione socioeconomica: questo dicono, impietosi, i dati.
Il danno, poi, oltre la beffa, è che l’investimento continuo delle proprie energie – economiche, fisiche, intellettuali – in nome della necessaria flessibilità, dell’aggiornamento continuo, della riqualificazione del proprio capitale umano, non è mai sufficiente e dovrà progressivamente essere innalzato ad obiettivi sempre più alti.
I risultati di questa psicosi collettiva, che si vorrebbe trasferire nella scuola, anzi in quella che abbiamo definito Psicoistruzione, sono sotto gli occhi di tuttə: un affaccendarsi senza fine a partire dai mille progetti dietro cui si disperdono le energie delle studentesse e degli studenti e alla fine del quale si innalza il muro di una disoccupazione disarmante…e il premio semplicemente non c’è.
[1] Scuola ed Emergenza Covid-19, Rapporto finale 13 luglio 2020, documento stilato dal Comitato di esperti istituito con D.M. 21 aprile 2020, n. 203.
[2] M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005, p. 186.
[3] J. Baudrillard, La società dei consumi, il Mulino, Bologna 2010, p. 194.
[4] Byung-Chul Han, Psicopolitica, Nottetempo, Milano 2014, p. 10.
[5] Ivi, p. 15.
[6] P. Bourdieu, C. Passeron, La riproduzione, sistemi di insegnamento e ordine culturale, Guaraldi, Firenze 1972.
[7] G. Bucher, direttrice di Oxfam International, cfr. https://www.oxfamitalia.org/la-pandemia-della-disuguaglianza/
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Il bluff del merito e della flessibilità nella società prestazionale. I rischi della Psicoistruzione ultima modifica: 2022-12-23T04:46:27+01:00 da