di Cristina Re, Roars, 30.4.2020
– In questo articolo, ci occupiamo di analizzare la connessione tra disuguaglianze sociali ed istruzione andando a decostruire una narrazione dominante che presenta il mondo della formazione come fondato su una efficiente meritocrazia che premia sempre i più bravi e “giustamente” lascia indietro chi non ha le “skills” per affrontare un mondo del lavoro flessibile che richiede giovani lavoratori sempre più “smart” e competitivi. Riferendoci, al di là dell’ideologia, alla realtà vediamo una situazione ben diversa: chi non ha le competenze adatte non è un incapace, ma viene da una condizione economica svantaggiata, e la meritocrazia diventa solo un modo per giustificare le enormi disuguaglianze economiche e sociali.
Da sempre sottolineiamo come il modello economico capitalistico genera uno sviluppo ineguale di diverse aree geopolitiche e classi sociali, il quale a sua volta viene rafforzato dalla “controrivoluzione” neoliberale, iniziata negli anni ‘80, che ha visto l’introduzione di una serie di leggi in materia di lavoro, di istruzione, di previdenza sociale, sanitaria ecc., aventi l’obiettivo di piegare i diritti sociali al profitto e promuovere l’interesse privato a discapito di quello pubblico. Questo sviluppo ineguale, rafforzato dall’Unione Europea soprattutto attraverso la gestione della crisi economica con politiche di austerity, emerge ormai chiaramente dai dati e dall’analisi del quadro generale, tant’è che ormai anche i giornali mainstream non riescono più a nasconderla, nonostante il goffo tentativo di mostrare il fenomeno come marginale. In Italia, nello specifico, sono usciti recentemente una serie di articoli sul tema che sottolineano come la disuguaglianza e la povertà siano ereditarie e molto più sentite al Centro-Sud. Inoltre, l’impatto è diverso all’interno degli stessi territori a seconda della classe di appartenenza e dell’età, risultando ancora più feroce nei confronti dei giovani, nonché per le fasce sociali più deboli.
Con lo scopo di avere una fotografia più chiara del fenomeno, smascherando gli effetti di un modello economico e sociale insostenibile, ne presentiamo una descrizione per cercare di cogliere le tendenze più rilevanti e soprattutto per mostrare l’assenza totale di mobilità sociale, le relazioni centro-periferia che si stanno sempre più rafforzando e l’attacco fortissimo perpetrato nei confronti delle nuove generazioni che, tra le fasce di popolazione, sono tra quelle che soffrono di più gli effetti di questo modello.
I dati Istat sulla povertà in Italia[2] indicano un aumento del numero di poveri assoluti, persone che non possono permettersi le spese essenziali per condurre uno standard di vita minimamente accettabile. Nel 2017 e nel 2018, il dato si attesta su 5 milioni di persone, ovvero l’8,4% dei residenti in Italia. In particolare, il dato è tragico per le bambine e i bambini: un povero assoluto su 4 ha meno di 18 anni. Con la crisi, infatti, i minori sono la fascia demografica che ha visto peggiorare di più la propria condizione: se nel 2005 si trovava in povertà assoluta il 3,9% dei giovani con meno di 18 anni, nell’ultimo decennio questa percentuale è più che triplicata (12,6% nel 2018). Approfondendo la condizione dei minori, disaggregando i dati per fasce d’età, la situazione più grave riguarda i bambini tra 7 e 13 anni: il 13,4% è povero.
Questi dati allarmanti mostrano anche un circolo vizioso tra bassa istruzione e povertà: nelle famiglie senza diploma la povertà assoluta è quasi tre volte più frequente di quelle dove la persona di riferimento è diplomata o laureata. La tendenza è aggravata da una scarsissima mobilità sociale. Nel nostro paese i figli di chi non è diplomato, tendono a loro volta a non diplomarsi, instaurando così un circolo vizioso tra condizione economica e educativa: chi nasce in una famiglia povera ha a disposizione meno strumenti per sottrarsi a questa condizione. Un problema sociale, perché rende la povertà ereditaria e finisce con l’aggravare la situazione dei territori già deprivati. Questo legame è visibile anche a livello territoriale. Il Mezzogiorno ad esempio si caratterizza per livelli di povertà assoluta più elevati (11,4% di persone povere, contro il 6,9% del nord e il 6,6% del centro Italia), ed è anche l’area del paese con i livelli d’istruzione più bassi. Infatti, agli ultimi posti per percentuale di adulti diplomati figurano tutte le regioni meridionali più popolose: Puglia, Sicilia, Sardegna, Campania e Calabria.
I dati Almalaurea, elaborati dal Sole24Ore[3], confermano chiaramente che chi parte svantaggiato in termini economici, ci resta. Abbiamo bassissimi tassi di giovani laureati rispetto al resto d’Europa (la quota di 25-64enni che posseggono un titolo di studio secondario superiore è stimato al 61,7% nel 2018, ben al di sotto della media europea che è pari al 78,1%), soprattutto fra le fasce meno abbienti, anche perché nel nostro paese si aggiunge il gap della scelta della scuola superiore. Nell’anno scolastico in corso il 55% dei ragazzi frequenta il primo anno di un liceo, il 30% un istituto tecnico e il 15% un istituto professionale, ma già questa prima scelta produce un divario di classe importante: solo un iscritto a un liceo classico o scientifico su 10 è figlio di operai o impiegati, il 17% dei diplomati professionali sceglie di andare all’università, e solo uno su tre di coloro che prima del diploma intendeva iscriversi all’università, l’ha effettivamente fatto. Chi proviene da famiglie più svantaggiate, non solo in termini economici, ma anche di titolo di studio dei genitori, di fatto studia di meno e quando anche arriva a iscriversi all’università, sceglie corsi di laurea più brevi.
Anche nel tasso di abbandono scolastico incide la provenienza sociale e quella territoriale[4]. In media, in Italia, poco meno di 15 giovani su 100 hanno abbandonato gli studi prima di arrivare al diploma o a una qualifica professionale di almeno 2 anni. In 3 regioni meridionali, Sardegna, Sicilia e Calabria, la percentuale supera il 20%. In Campania e Puglia oscilla tra il 18 e il 19%. Ma i divari, nel nostro paese, non emergono solo dal confronto tra le regioni, ma dentro le stesse regioni possono coesistere divari molto ampi. La Liguria è quella con i divari interni più ampi: al dato di La Spezia (4,8% di abbandoni nel 2017) si contrappone quello di Imperia (22,2%). Un gap interno che quindi è pari a 17,4 punti percentuali. I divari risultano particolarmente ampi anche in Toscana e Sardegna. Nella prima, la quota di abbandoni di Arezzo (22%) supera di quasi 16 punti quella di Firenze (6,4%). L’analisi per province, del resto, mostra che anche nelle regioni del Nord ci sono realtà dove l’abbandono è diffuso ai livelli del Mezzogiorno. È il caso ad esempio di Liguria e Piemonte, dove si trovano le 2 province con il maggior abbandono scolastico dell’Italia settentrionale: Imperia e Novara. Due casi interessanti, visto che in entrambe le regioni la quota di abbandoni è inferiore alla media nazionale, sebbene si collochi al di sopra della soglia europea del 10%.
Tali disuguaglianze perpetuano nel mondo del lavoro o meglio del “non lavoro”. Infatti, spostandoci nel settore occupazionale i dati ci confermano che queste tendenze si riverberano nell’occupabilità, dove vediamo un Sud sempre più arretrato in cui negli ultimi due trimestri del 2018 e nel primo del 2019 gli occupati sono calati di 107 mila unità (-1,7%), mentre nel centro Nord sono cresciuti di 48 mila unità (+0,3%) nello stesso periodo[5]. Per di più, l’Italia si aggiudica il primato rispetto agli altri paesi europei riguardo ai Neet: nel 2018 i Neet (Not in Education, Employment or Training) sono 2.189.000, confermando il problema strutturale dell’inclusione e della partecipazione dei giovani all’interno del mercato del lavoro e dei percorsi formativi. Nel Mezzogiorno, però, l’incidenza dei Neet è più che doppia (33,8%) rispetto al Nord (15,6%), mentre al Centro è del 19,6%[6]. Gli effetti delle disuguaglianze che si riflettono quindi sulle scelte dei giovani non sono solo legate all’istruzione bensì anche al lavoro e questo comporterà un inasprimento in termini di migrazioni interne in primo luogo e verso i paesi core dell’UE in secondo luogo. L’ultimo rapporto Svimez[7] ci offre un quadro entro il quale l’Italia si muoverà, tenendo a mente un progressivo rallentamento dell’economia italiana. Chi verrà leso maggiormente da questa situazione è ancora una volta il Sud. Continuando a citare la fonte Svimez, gli emigrati dal Sud tra il 2002 e il 2017 sono stati già oltre 2 milioni, di cui 132.187 solo nel 2017. Di questi ultimi 66.557 sono giovani (50,04%, di cui il 33% laureati). Il saldo migratorio interno al netto è negativo per 852 mila unità. Nel 2017 sono emigrati dal Meridione 132 mila persone, con un saldo negativo di circa 70 mila unità.
In conclusione, possiamo affermare che analizzando i dati più recenti si conferma che, se nasci povero e da genitori senza titoli di studio, morirai povero e senza titoli di studio. Le condizioni di partenza, infatti, si riflettono sull’intero percorso di studi: dalla scelta della scuola superiore, alla scelta di portare gli studi a termine o meno, alla scelta dell’università e del tipo di percorso universitario. Tant’è che sarebbe più corretto smettere di chiamarle scelte e considerare, invece, che fin dalla scuola inizia la selezione di classe che continua anche nel mondo del lavoro. Le disuguaglianze economiche e sociali imposte dal modello di produzione capitalistico e accentuate dalla gestione della crisi da parte dell’Unione Europea si riflettono così nel sistema formativo che invece di essere uno strumento di emancipazione diventa una vera e proprio scuola di classe.
Pensiamo che il primo passo per ribaltare questo sistema sia quello di individuare i responsabili e creare strumenti d’analisi che ci aiutino a distinguere tra narrazione ideologica e realtà, e tra interessi di pochi e interessi di molti. Rifiutiamo quindi la narrazione dominante che parla impropriamente di sistema meritocratico e portiamo avanti la scelta di costruire un’opposizione reale e di rottura a partire dalle nuove generazioni che, tra le fasce di popolazione, sono tra quelle che soffrono di più gli effetti di questo processo.
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[1] Noi Restiamo è un’organizzazione politica di giovani universitari e lavoratori precari che hanno scelto di costruire un’opposizione nelle università e nelle conflittualità metropolitane. La mancanza di un approccio complessivo che inquadrasse le dinamiche del sistema formativo e un contesto di mobilitazioni studentesche conflittuali sempre più ridimensionato, ha fatto nascere l’esigenza di un’analisi politica delle trasformazioni che stanno avvenendo nelle nostre università, presupposto necessario, ma certo non sufficiente senza la pratica e la lotta, per capire come “rompere gli ingranaggi” e mettere in campo un’opposizione reale e di rottura.
[2] https://www.openpolis.it/il-legame-tra-bassa-istruzione-e-poverta-va-considerato-unemergenza/
[3] https://www.infodata.ilsole24ore.com/2019/08/08/37865/
[4] https://www.openpolis.it/divari-ampi-sullabbandono-scolastico-anche-dentro-la-stessa-regione/
[5] https://www.ilsole24ore.com/art/svimez-2019-pil-sotto-zero-spettro-recessione-sud-ACqAIdc
[7] https://www.ilsole24ore.com/art/svimez-2019-pil-sotto-zero-spettro-recessione-sud-ACqAIdc
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Il circolo vizioso tra bassa istruzione e povertà ultima modifica: 2020-04-30T21:04:36+02:00 da