Il declino del prestigio culturale dell’insegnante a partire dal nuovo millennio

Gilda Venezia

di Salvo Amato, Professione insegnante, 19.10.2021.
Gilda Venezia
L’altro giorno ho incontrato un mio vecchio insegnante che avevo quando andavo alla scuola media, uno di quelli che ho avuto il piacere di conoscere da studente nel lontano 1995. E’ oramai in pensione da anni ed ha avuto la fortuna di andarci bene prima della riforma dell’autonomia.
L’altro giorno effettivamente ho avuto il piacere di confrontarmi con la scuola di 30 anni fa, vista con gli occhi di insegnanti di due generazioni. Io conoscevo solo quel lato visto dagli studenti ma ho avuto alcune conferme. Il mio prof. è stato determinante per le mie scelte future, era il mio punto di riferimento. Per me lui era il depositario della conoscenza, colui che mi apriva le porte verso il sapere.
Era un’epoca diversa, quella in cui mia madre non avrebbe mai messo in discussione il giudizio di un insegnante. Era un’epoca in cui l’ascensore sociale ancora funzionava. Era un periodo in cui insegnare era una professione, non un mestiere impiegatizio come è stato ridotto dalla scuola dell’autonomia. Scuola dell’autonomia che, ironia della sorte, ha finito per uccidere l’autonomia dell’insegnante e la libertà di insegnamento definita nell’articolo 33 della Costituzione.
Era soprattutto un’epoca in cui il depositario della cultura, pur non disponendo neanche allora di una remunerazione adeguata, era oggetto di rispetto e ammirazione, era colui che veniva fuori da un percorso lungo e faticoso per raggiungere una posizione rispettabile e prestigiosa.
Poca burocrazia, quella necessaria, nessuna delle sigle di oggi tra PEI, POF, PTOF, progetti e progettino, GLO e via discorrendo. Niente didattica per competenze ma didattica in profondità quella che ti dà le basi per tutto. Diversa dalla didattica per competenze sulla quale non puoi costruirne di altre, neanche da solo. C’era il prof. quello autorevole, da “sfruttare al massimo”, non il facilitatore, colui che costruisce “omogeneizzati” del sapere, personalizzati, ad uso e consumo di chi ha questa o quell’altra difficoltà. Non c’era l’insegnante alla ricerca di tutte le armi di persuasione – anche di se stesso – per auto convincersi che alla fine quell’alunno “ce la mette tutta, ma arriva lì dove può”.
No, In una scuola che si rispetti, non c’erano sconti. Non studi? Perdi l’anno. E niente scuse per nessuno, niente genitori che fanno ricorsi, nessuna “autonomia” di quelle che “noi ce la cantiamo e noi ce la suoniamo”. No, la scuola era abbastanza omologata dalla Valle d’Aosta alla Sicilia. E poi arriva il nuovo millennio, quello che mi vede insegnante, e penso di trovare la stessa scuola che ho lasciato, ma vedo cosa c’è dietro le quinte. E via con il voto di consiglio, con le programmazioni personalizzate, con le strategie didattiche di ogni genere. E non puoi rimproverare l’alunno che si traumatizza, non puoi mettere un brutto voto che ci rimane male, né usare la penna rossa che sembra sangue. E devi tenere conto che sia BES o che sia DSA, che abbia problemi in famiglia o che abbia subìto la morte di 12 nonni. E poi giù a rincorrere lo studente che ti sbatte in faccia il diritto di andare in bagno, quello di scioperare se fa freddo o se fa caldo. Il diritto del “non ce lo aveva detto prima” o “non ho soldi per comprare il libro”. E cosa vuoi farci? E’ la scuola dell’obbligo, quelle che per me studente degli anni 90, si fermava alla terza media e adesso arriva sino alla maggiore età. Sì, proprio così, l’obbligo per gli insegnanti, di promuovere tutti.
Perché l’ascensore sociale si è bloccato, non passa più per la scuola ma per le botte di culo. Non si raggiunge una buona posizione lavorativa studiando ma facendosi una posizione con i mezzi più improbabili. C’è ben poco da elencare ma una cosa è certa: insegnare interessa a pochi, perchè farsi un culo così per guadagnare meno di un operaio?
Perché essere visti come notai che fanno il loro lavoro ma alla fine scrivono voti e qualunque sia il loro giudizio, con loro o senza di loro lo studente finisce gli studi spesso senza rendersene conto. Ed è inutile spiegare che studiare non debba servire solo migliorare la propria posizione sociale ma per se stessi, inutile precisare che non si studia per il voto ma per il piacere della conoscenza. La conoscenza ha perso il suo appeal laddove la motivazione si è persa strada facendo.
E così non ci resta che diagnosticare quanto ignoranti siano le nuove generazioni senza essere in grado di individuare la giusta medicina.
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