Il Piano Scuola 4.0: la digitalizzazione forzata del PNRR

roars_logodi Giovanni Carosotti e Rossella Latempa, Roars, 19.4.2023.

Parte I.

Gilda Venezia

Dedichiamo, a partire da questo post, un approfondimento in due parti sul “Piano Scuola 4.0” e relativa progettazione, nel quadro del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). In questa prima parte ci soffermeremo sugli elementi di continuità del Piano Scuola con i precedenti interventi di riforma, mentre nella seconda evidenzieremo quello che potremmo definire il “salto di qualità” del nuovo piano, in termini di impatto sulla didattica e sulla relazione educativa. La nuova accelerazione riformista impressa dal PNRR riprende e riaggiorna alcuni elementi di sempre: a partire dalla ricerca di padri nobili (Montessori, Malaguzzi….OCSE); nell’uso di una neolingua ad effetto, che abbiamo imparato a decodificare da tempo e che mira a suggestionare e opacizzare; nell’invito ad “accompagnare” i docenti nella “transizione digitale”, invito rivolto ai bravi dirigenti e a tutta la comunità di apprendimento. Infine, la formazione di una futura “leadership pedagogica”, interna ad ogni istituto. Una nuova gerarchia di docenti, le cui competenze – certificate in progressione secondo lo schema di quelle linguistiche – distinguano  i Novizi (A1), consapevoli ma con limitate conoscenze, ancora bisognosi di “incoraggiamento e accompagnamento”, dagli Esploratori (B1), fino ai Pionieri (C2), veri leader “mossi” dal continuo “impulso di innovare”. Sono loro le “rarità preziose” della Scuola Futura.


I PARTE

1. Premessa

Non sembra azzardato affermare che il Piano “Scuola 4.0”  è probabilmente la più ambiziosa tra le azioni previste dal PNRR per quanto riguarda l’ istruzione, e quella in prospettiva di maggiore impatto sui destini della scuola italiana.

E se è vero che in questi anni prassi e organizzazione scolastica hanno già[1] subito trasformazioni significative, probabilmente irreversibili, dal momento che si è realizzato  un vero e proprio mutamento antropologico nel modo di intendere le finalità dell’istruzione e di porsi all’interno della relazione didattica, non ci sembra eccessivo ritenere che le riforme del PNRR introdurranno in pochi anni cambiamenti altrettanto radicali: nelle modalità di intervento politico, di governance e negli assetti interni agli istituti. In termini di intervento politico e di governo, il PNRR modifica i rapporti scuola-Stato: si procede attraverso dispositivi legislativi d’urgenza, ridimensionando o azzerando il dibattito parlamentare;  si inaugura una ripartizione di risorse di tipo tecnocratico, sottratta alla possibilità di accertamento pubblico e orientata a target misurabili; si rafforza la dimensione di mercato, attraverso la progettazione per bandi aperti ad una moltitudine di soggetti privati in concorrenza tra loro. Per quanto riguarda gli assetti interni a ciascuna scuola, come cercheremo di argomentare, si consolidano processi verticistici, finalizzati a massimizzare l’efficienza e a ridurre il confronto dialettico, comprimendo ulteriormente la partecipazione collegiale; si realizzano nuove gerarchizzazioni legate alla nascita di team o referenti di progetto, riducendo la condivisione di scelte metodologico-didattiche ad atti puramente formali

In realtà, per chi ha seguito in questi anni le riflessioni che abbiamo proposto anche su questo blog , in particolare dall’approvazione della Legge 107 in avanti, la scuola è stata oggetto di strategie di riforma discontinue e sovrapposte ma sostanzialmente coerenti, che hanno introdotto elementi di “innovazione” permanente e di scarso impatto culturale, orientate sempre più esplicitamente a connettere le finalità, l’organizzazione e i contenuti dell’istruzione alle logiche e agli interessi del mondo economico-produttivo. Pensiamo solo all’alternanza scuola lavoro, poi ridefinita PCTO, all’insegnamento dell’educazione civica, ai sillabi delle competenze imprenditoriali e filosofiche, alla “sperimentazione” dei licei quadriennali e alla più recente trovata dell’insegnamento delle soft skills.  Per quel che riguarda l’enfasi sulle nuove tecnologie informatiche e la retorica della transizione digitale, anche solo prendendo come riferimento temporale la Buona Scuola, le riforme previste dal Piano Scuola 4.0 del PNRR si presentano  in perfetta continuità –peraltro esplicitamente rivendicata- con i due Piani Nazionali Scuola digitale succedutesi a partire dal 2017 e con le azioni previste dai progetti del Programma Operativo Nazionale (PON istruzione).

Il Piano Scuola 4.0 si colloca dunque nello stesso perimetro concettuale e discorsivo degli interventi di riforma dell’ultimo trentennio.  Esistono tuttavia elementi di discontinuità significativi rispetto al passato, legati ai vincoli e alle condizionalità europee, ai processi di gestione e di monitoraggio dei progetti, ai possibili interventi amministrativi in caso di inadempienze o mancato rispetto delle scadenze. E su questi si giocherà il riassetto scolastico dei prossimi anni e la capacità di conservare autonomia professionale e libertà di deliberazione da parte dei docenti.

Ma procediamo con ordine.

2. Cos’è e cosa fa il Piano Scuola 4.0

Il Piano Scuola 4.0  (Piano, di qui in avanti) si presenta, dal punto di vista operativo, come il più ingente finanziamento mai ricevuto dalle scuole italiane (un totale di 2,1 miliardi di euro, dell’ordine di centinaia di migliaia di Euro per ogni scuola,), proveniente dai fondi europei e destinato esclusivamente alla creazione di “ambienti d’apprendimento innovativi” e “laboratori per le professioni digitali del futuro”.  Si tratta del più grande “intervento trasformativo mai realizzato”, lo ha definito l’ex Ministro Bianchi.

A differenza dei noti progetti PON europei, già vincolanti in termini di metodologie e finalità, ma volontari e più limitati nelle risorse e nelle aree di intervento, il Piano si propone alle scuole come un’opportunità irrinunciabile: finanziamenti assegnati per decreto (vedi qui e qui) a cui non si può dire di no. Stavolta è un’opera di “innovazione” che non può essere evitata.

Tutto sarebbe estremamente auspicabile, se si trattasse di una cospicua quantità di finanziamenti per permettere alle scuole di rinnovare il loro patrimonio  tecnologico e digitale. Ma, esattamente come abbiamo commentato in diverse occasioni in questi anni, questa innovazione tecnologica diventa un pretesto per perseguire altri scopi:

  • vincolare gli insegnanti alla cosiddetta didattica per competenze, vincendo una resistenza che, seppure via via più debole e incapace di reagire collettivamente, persiste nel corpo docente;
  • incidere sull’organizzazione e gestione interna degli istituti, distinguendo i lavoratori secondo criteri di affidabilità e di fedeltà al nuovo sistema;
  • connettere ancora più strettamente la scuola agli imperativi economici e alle esigenze dell’odierno mercato del lavoro, consentendo agli stakeholders (di più vario genere, ma in particolare attori imprenditoriali) di gestire in primis aspetti centrali della vita scolastica attraverso ingenti finanziamenti pubblici.

3. Un’evidente continuità

Il Piano  e la retorica emergenziale che accompagna il PNRR, con la sua disponibilità eccezionale di fondi vincolati, ci propongono un salto di qualità, soprattutto per come si intende esercitare tutta la pressione possibile affinché le scuole non possano interpretare liberamente lo spirito delle azioni di riforma e  l’ingente tecnologia messa loro a disposizione. Ma prima di cercare di corroborare tale valutazione, conviene porre in evidenza gli elementi di continuità con gli interventi che lo hanno preceduto, anche solo sinteticamente, per punti.

Cominciamo col dire che il Piano è un documento che non reca alcuna firma, di difficile lettura per quanto riguarda l’enfasi retorica, lo stile comunicativo e la veste grafica, più orientati a finalità promozionali che pedagogiche, l’uso massiccio di termini anglofoni, la  schematicità del punto di vista sulle  nuove tecnologie didattiche, basata su un  tecno-ottimismo privo di qualsiasi cenno critico.

 I padri nobili

Come la quasi totalità dei documenti precedenti, anche il Piano è alla ricerca di padri nobili, nel tentativo di accreditare l’innovazione che si intende introdurre quale esito naturale del pensiero più progressista della storia della pedagogia. E anche nel nuovo Piano si fa riferimento, in premessa, a “ricerche nazionali e internazionali” mai citate, ma da assumere in continuità con le migliori lezioni del passato.

Leggiamo infatti che (pag. 4) :

«la ricerca nazionale e internazionale ha mostrato come il modello tradizionale di spazio di apprendimento non sia oggi più in linea con le esigenze didattiche e formative delle studentesse e degli studenti rispetto alle sfide poste dai cambiamenti culturali, sociali, economici, scientifici e tecnologici del mondo contemporaneo, proponendo “ambienti di apprendimento innovativi” connessi a una visione pedagogica che mette al centro l’attività didattica e le studentesse e gli studenti»

Il richiamo è a Maria Montessori e  Loris Malaguzzi, di cui si ricordano le definizioni di spazio come “maestro” (la prima)  o “terzo educatore” (il secondo).  Troppo poco per sostenere un profondo e coerente collegamento presentate, il tutto peraltro decontestualizzato rispetto ai diversi ordini di scuola. Dal momento che uno spazio decoroso -elemento assente in buona parte delle scuole d’Italia- può essere sicuramente decisivo per favorire il miglioramento delle attività, ma ciò non vale in eguale modo per le scuola dell’infanzia, primaria, o per i gradi successivi di istruzione, essendo le attività cognitive richieste e la tipologia della relazione didattica evidentemente molto differenti.
Da Montessori e Malaguzzi si passa poi agevolmente ai “I 7 principi dell’apprendimento OCSE”; un’istituzione (come del resto l’Unesco, che viene successivamente citata) sulla cui neutralità rispetto alle diverse opzioni che in pedagogia vengono elaborate sarebbe opportuno avanzare qualche riserva.

Si nota un linguaggio sufficientemente fumoso, che fa riferimento a processi di socializzazione, cognitiva e non solo, che non sono affatto esclusivi della didattica digitale, ma che appartengono alla più feconda tradizione dell’insegnamento. E che anzi -vedi ad es.  Girolamo De Michele qui– vengono fortemente penalizzate dall’uso esclusivo della tecnologia digitale, che spesso solo in modo apparente e seducente favorisce una gestione cooperativa del lavoro.

Che i principi OCSE e il pensiero di Montessori e Malaguzzi siano connessi, il testo non si preoccupa di dimostrarlo. La loro giustapposizione basti per indicare come meglio procedere nella trasformazione promessa dalla nuova digitalizzazione degli ambienti di apprendimento. E comunque i riferimenti alla pedagogia non vanno oltre affermazioni generiche come la seguente:  “la storia della pedagogia e della ricerca educativa ha offerto rilevanti contributi sull’influenza dei luoghi, degli spazi e degli ambienti nel processo di apprendimento.”

Neolingua

 Anche il Piano Scuola 4.0 è caratterizzato dalla neolingua che da anni segna le politiche educative. Una lingua che vuole presentarsi nel segno della complessità e della scientificità, mentre di fatto propone solo espressioni ad effetto non motivate.

Un esempio:

“Gli ambienti fisici di apprendimento non possono essere oggi progettati senza tener conto anche degli ambienti digitali (ambienti on line tramite piattaforme cloud di e-learning e ambienti immersivi in realtà virtuale) per configurare nuove dimensioni di apprendimento ibrido. L’utilizzo del metaverso in ambito educativo costituisce un recente campo di esplorazione, l’eduverso, che offre la possibilità di ottenere nuovi “spazi” di comunicazione sociale, maggiore libertà di creare e condividere, offerta di nuove esperienze didattiche immersive attraverso la virtualizzazione, creando un continuum educativo e scolastico fra lo spazio fisico e lo spazio virtuale per l’apprendimento, ovvero un ambiente di apprendimento onlife.

 Sembra sempre che l’ossessione di chi scrive i documenti che fanno da sfondo alle riforme scolastiche sia quella di fare colpo (eduverso, metaverso, onlife) , creando sempre nuovi costrutti  capaci di suggestionare il lettore rispetto alla positività dei provvedimenti proposti; ma che, ad attenta analisi, si rivelano quasi sempre un’impostura intellettuale, che sfrutta ideologicamente il richiamo a supposte condizioni desiderabili,  trasferite invece in un contesto adattivo e privo di qualsiasi profondità critica; in cui insegnante e studente agiscono in maniera subordinata e non emancipante.

Sul cosiddetto Ed-Tech Speak, d’altra parte, memorabile resta la riflessione del  sociologo di Neil Selwyn di qualche anno fa:

Una lingua caratterizzata da[3]

modalità ristrette che persistono nel mondo della pubblicità, del settore immobiliare, della scrittura di discorsi politici, della professione legale e arte contemporanea. Queste aree della società sono notoriamente intrise di un linguaggio opaco, ottuso [..] ma altamente politico nella sua natura e nei suoi effetti.[..] Non dovrebbero essere trattati semplicemente come parole, termini, frasi e affermazioni benigne o neutre. Invece, questi sono potenti mezzi per far avanzare gli interessi e le agende di alcuni gruppi sociali rispetto agli interessi di altri. In quanto tale, questa base linguistica limitata è un problema serio per chiunque sia interessato al potenziale democratico della tecnologia digitale nell’istruzione.”

Selwyn suggerisce una chiave di lettura critica:

“Proprio come sostiene Frankfurt [On bullshit, 2005], il linguaggio che pervade l’istruzione e la tecnologia non si propone deliberatamente di mentire o nascondere la verità in sé. Tuttavia, si potrebbe dire che è [..] eccessivo, fasullo e generalmente ‘ripetuto abbastanza senza pensare e senza alcun riguardo per come stanno realmente le cose’.Visto in questi termini, quindi, gran parte di ciò che si dice sull’istruzione e sulla tecnologia può essere classificato piuttosto come una stronzata. Perseguire questa linea di critica rende quindi più facile svelare la natura problematica del linguaggio dell’istruzione e della tecnologia.”

[ Notevole anche la più recente analisi dello stesso Selwyn sul nuovo “design coercitivo” che la digitalizzazione forzata imporrebbe ]

Ma sappiamo che la manipolazione e distorsione linguistica non si limitano all’ambito delle nuove tecnologie dell’informazione.

É stato nel recente passato il caso di espressioni come dedizione, affettuosità, comunità educante, il cui senso autentico e nobile veniva ribaltato a sostegno di una logica regressiva.  Nel Piano, invece, il concetto chiave quello di ecosistema di apprendimento, che mira a creare un’inconsapevole analogia ed assonanza con problematiche di carattere ambientale, e che dovrebbe fare riferimento a un virtuoso sistema di relazioni né adeguatamente illustrate né, tanto meno, dimostrate.

“Il concetto di ambiente è connesso all’idea di “ecosistema di apprendimento”, formato dall’incrocio di luoghi, tempi, persone, attività didattiche, strumenti e risorse. Non sono sufficienti, dunque, solo lo spazio e la tecnologia per creare un ambiente innovativo, ma sono fondamentali la formazione, l’organizzazione del tempo e le metodologie didattiche.”

L’ecosistema dell’apprendimento,  come cercheremo di sostenere in seguito, si propone come un sistema di gestione dell’insegnamento, promuovendo una condizione gerarchica interna alle scuole di tipo autoritario e diseguale, e una relazione docente-alunno improntata a realizzare processi di soggettivazione piuttosto che a formare personalità critiche; introducendo nuove forme di controllo e automazione delle interazioni – dei giudizi e delle relazioni educative – assai problematiche e da guardare con profondità critica, invece che con superficiale fascinazione.

Una sorta di spettacolarizzazione dei concetti, che risponde più a una logica debordiana di presentazione dei contenuti –nella consapevolezza di una loro scarsa inconsistenza epistemologica-, piuttosto che la prova di un vocabolario tecnico tanto rigoroso quanto capace di imporsi secondo criteri di evidenza.

 Tecnologia implica motivazione

Ritorna, come nei Piani digitali precedenti, l’affermazione non motivata per cui l’adozione della tecnologia digitale nella comunicazione didattica costringerebbe a particolari metodologie didattiche (immancabilmente innovative) senza le quali quegli stessi strumenti non valorizzerebbero le loro potenzialità, se non addirittura le annullerebbero del tutto. Tali metodologie, sulle quali torneremo, sono sinteticamente citate (apprendimento ibrido, pensiero computazionale, apprendimento esperienziale, insegnamento delle multiliteracies e debate, gamification), senza ulteriori specificazioni.

Come abbiamo già indicato in altra sede, il fatto che queste tecniche didattiche, al di là della loro più che discutibile validità, diano il meglio di sé attraverso la strumentazione digitale è affermazione tanto dubbia quanto non provata. Anche in questo caso si fa costantemente riferimento ad autorità e studi senza mai specificare un nome o una precisa teoria verso la quale si sarebbe constatato un assenso scientifico diffuso. Vi è solo un riferimento, in nota, a un lavoro di area anglosassone[4], che francamente ci sembra un po’ poco per affermare che le pagine che andiamo commentando rappresentino  un’esposizione scientifica e non una comunicazione politico-ideologica.

È necessario che la progettazione didattica, disciplinare e interdisciplinare, adotti il cambiamento progressivo del processo di insegnamento e declini la pluralità delle pedagogie innovative (ad esempio, apprendimento ibrido, pensiero computazionale, apprendimento esperienziale, insegnamento delle multiliteracies e debate, gamification, etc.), lungo tutto il corso dell’anno scolastico, trasformando la classe in un ecosistema di interazione, condivisione, cooperazione, capace di integrare l’utilizzo proattivo delle tecnologie per il miglioramento dell’efficacia didattica e dei risultati di apprendimento.[..]“I docenti come professionisti creativi del processo di apprendimento possono favorire la motivazione e l’impegno attivo delle studentesse e degli studenti, utilizzando modelli educativi progettati a misura della loro inclinazione naturale verso il gioco, la creatività, la collaborazione e la ricerca.”

Come queste ampie citazioni propongono con linguaggio giocoso, la classe della Scuola 4.0 è un “ecosistema di interazione”, più che una comunità ermeneutica,  in cui professionisti creativi – gli insegnanti – coinvolgono  studenti infantilizzati, quasi incapaci di provare interesse intellettuale, con strategie distraenti.  Come se si potessero comunicare competenze quasi inavvertitamente.

Docenti da accompagnare

Anche il Piano Scuola 4.0 richiama i docenti al necessario mutamento del proprio paradigma professionale. Passato il tempo di dichiarare esplicitamente la necessità di “destrutturare le sinapsi cerebrali” di quei “professionisti di vecchia data ancora convinti che il titolo di studio sia un valore”,  dopo il freudiano “riaddestramento” dell’ex Ministro Bianchi, oggi la neolingua istituzionale che si rivolge agli insegnanti, si ritorna al paternalistico “accompagnare/accompagnamento”.

“Al fine di coordinare le misure di trasformazione digitale, ciascuna istituzione scolastica adotta il documento “Strategia Scuola 4.0”, che declina il programma e i processi che la scuola seguirà per tutto il periodo di attuazione del PNRR con la trasformazione degli spazi fisici e virtuali di apprendimento, le dotazioni digitali, le innovazioni della didattica, i traguardi di competenza in coerenza con il quadro di riferimento DigComp 2.2, l’aggiornamento del curricolo e del piano dell’offerta formativa, gli obiettivi e le azioni di educazione civica digitale, la definizione dei ruoli guida interni alla scuola per la gestione della transizione digitale, le misure di accompagnamento dei docenti e la formazione del personale, sulla base di un format comune reso disponibile dall’Unità di missione del PNRR.

Rimane  insomma l’esigenza di insegnare ex novo ai docenti come esercitare la propria professione, dal momento che il loro bagaglio professionale non risulterebbe più adatto ai nuovi ambienti di apprendimento, considerati modelli alternativi di pratiche cognitive, che solo ladidattica innovativa sarebbe in grado di sviluppare positivamente. La formazione obbligatoria troverebbe così, sulla base di questa relazione, un fondamento definitivo e non contestabile.

“La linea di investimento “Didattica digitale integrata e formazione sulla transizione digitale del personale scolastico” è fortemente interconnessa con “Scuola 4.0”, in quanto mira a formare docenti e personale scolastico sull’utilizzo delle tecnologie digitali nei processi di apprendimento-insegnamento e delle metodologie didattiche innovative all’interno di spazi di apprendimento appositamente attrezzati.”

Un invito ai dirigenti

 Non manca poi –e poteva mai?- un invito ai Dirigenti a condizionare il loro corpo docente, in modo che si adegui a queste direttive. Anche qui, si ripropone il chiaro invito a utilizzare tutta la loro capacità di pressione nei confronti di quegli insegnanti poco convinti di aderire ai nuovi paradigmi: volenti o nolenti, per citare la Fondazione Agnelli.

Fondamentale è il ruolo dei dirigenti scolastici nell’introdurre il cambiamento nell’ambiente esistente per consentire ai docenti di organizzare il loro insegnamento in modo diverso, prototipare e sperimentare nuove disposizioni spaziali della classe e nuove metodologie didattiche, guidando il processo di trasformazione e attivando risorse interne di supporto e di accompagnamento.”

In fondo non c’è neanche l’auspicio –presente invece nel documento recente dell’Associazione Nazionale Presidi La Scuola che vogliamo–  a riformulare gli organi collegiali, in senso evidentemente autoritario. Forse non c’è n’è bisogno perché, come vedremo fra poco, il meccanismo di condizionalità previsto dal progetto in qualche modo pensa di poter superare il dissenso, riducendo il parere dei collegi docenti a pura formalità burocratica[5]

Una gerarchia degna del Nome della Rosa

In ultimo –a riprova di come la Scuola 4.0 intende portare a definitiva realizzazione un’idea di scuola coltivata già dagli anni Novanta, quando parlare di digitalizzazione integrale sarebbe apparso azzardato- il Piano prevede la formazione di quella che definisce  leadershipeducativa; insomma, un gruppo di insegnanti di più alto livello gerarchico, per i quali la rilevanza della loro funzione e competenza sarebbero dimostrate dall’adesione alla  didattica “innovativa” e digitale. Tale leadership, cioè, risulterebbe automaticamente selezionata tra coloro che  selezionata cioè tra coloro che, accettano di partecipare a con convinzione all’imminente trasformazione della scuola digitale, facendo proprie le parole d’ordine che la legittimano. Immaginiamo sia proprio tale posizione gerarchica a definire al meglio l’attribuzione del concetto di merito, che il nuovo governo ha voluto aggiungere alla denominazione del Dicastero dell’Istruzione.

La promozione delle pedagogie innovative e delle connesse metodologie didattiche costituisce, pertanto, uno snodo importante del lavoro di progettazione didattica ed educativa per utilizzare tutto il potenziale degli ambienti di apprendimento trasformati e deve essere progettata contestualmente agli spazi, grazie a una leadership pedagogica che possa incoraggiare una cultura dell’apprendimento e dell’innovazione in tutta la scuola.”

E’ addirittura previsto un modello di “progressione di carriera” della padronanza delle competenze professionali in campo digitale, mutuato direttamente dall’ennesima tassonomia europea: il quadro DigCompEdu. Seguendo i medesimi codici adottati per le certificazioni linguistiche, la transizione digitale del docente/formatore si snoda lungo una dettagliatissima classificazione delle diverse fasi dello “sviluppo della propria competenza”: da Novizio (A1), consapevole ma con limitate conoscenze, che “necessita” ancora di “incoraggiamento e accompagnamento”, a Pioniere (C2), leader “mosso” dal continuo “impulso di innovare”, una “rarità preziosa” per ciascuna scuola.

Come si vede (la figura precedente è ripresa dal quadro DigCompEdu) sono previste griglie  corrispondenti ai codici delle certificazioni linguistiche:

“I percorsi formativi sono strutturati sulla base del quadro di riferimento europeo sulle competenze digitali dei docenti, il DigCompEdu, delle 6 aree di competenza(Coinvolgimento e valorizzazione professionale, Risorse digitali, Pratiche di insegnamento e apprendimento, Valutazione dell’apprendimento, Valorizzazione delle potenzialità degli studenti, Favorire lo sviluppo delle competenze digitali degli studenti)e dei livelli di ingresso necessari(A1 Novizio, A2 Esploratore, B1 Sperimentatore, B2 Esperto, C1 Leader, C2 Pioniere).”


[1] Pensiamo solo a tutti gli interventi normativi e amministrativi realizzati dall’introduzione dell’ autonomia scolastica ad oggi.

[2] Chiariremo il senso di questa obbligatorietà più avanti.

[3] Traduzione di chi scrive.

[4]Paniagua, A. e Istance, D. (2018), Teachers as Designers of Learning Environments: The Importance of Innovative Pedagogies, Educational Research and Innovation, OECD Publishing, Paris. Disponibile su: https://read.oecd-ilibrary.org/education/teachers-asdesigners-of-learning-environments_9789264085374-en. Vi è anche un riferimento alle raccomandazioni del World Economic Forum, The Future of Jobs, Report 2020 che, ovviamente, non è istituzione competente in pedagogia, ma esprime bene la subordinazione che si vuole stabilire dei processi formativi agli imperativi economici.

[5] Come vedremo nella seconda parte, la piattaforma ministeriale tramite cui gestire la progettazione delle azioni connesse al Piano Scuola 4.0, prevede l’inserimento delle delibere collegiali anche in un secondo momento rispetto alla prima fase di accreditamento, la cui scadenza era prevista per il 28 febbraio 23. Vedi FAQ nr 7 al link: https://pnrr.istruzione.it/wp-content/uploads/2022/09/m_pi.AOOGABMI.REGISTRO-UFFICIALEU.0004302.14-01-2023.pdf

Il Piano Scuola 4.0: la digitalizzazione forzata del PNRR ultima modifica: 2023-04-20T15:21:08+02:00 da
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