di Francesca Cocomero and L’Indispensabile, la fionda, 4.1.2023.
Ieri mattina ascoltavo una importante emittente radio intervistare il professore di un prestigioso liceo romano, che veniva celebrato per aver inaugurato la prima “scuola senza voti” della città.
Un sistema definito “eccezionale”, una vera “rivoluzione”. Il professore ha raccontato di come i voti, in queste classi, siano stati banditi (tranne che in pagella a fine anno) e di come siano stati incoraggiati determinati studenti a spiegare ai loro compagni “alcuni concetti molto complicati” che il professore non era riuscito a chiarificare, sulla base del principio che “imparare dai pari” favorisce un tipo di apprendimento più efficace.
Ciò che ci preme in questa sede non è tanto valutare la bontà in astratto di questa determinata scelta, bensì grattare la superficie patinata di questa notizia “incredibile” e “rivoluzionaria”, per tentare di scovare ciò che di meno prezioso si nasconde sotto questo luccichio.
Come è noto, la profonda crisi che investe le istituzioni scolastiche dei nostri giorni nasce da lontano: è figlia di un susseguirsi di scelte politiche e culturali viziate da una visione distorta, ideologica e schematica di ciò che avviene tra i banchi di scuola.
La proposta, certo originale, del nostro amico professore di liceo è solo l’ultima di una serie di soluzioni, anche suggestive, che non affrontano, a nostro avviso, i problemi della scuola alla radice. Anche l’idea di eliminare i voti ci pare un colpo di teatro che sorvola i nodi centrali: più che il giudizio in se stesso, il problema sono semmai i criteri e i fini a partire dai quali gli studenti vengono valutati, l’importanza di premiare l’impegno reale dello studente e la sua attitudine critico-problematizzante contrastando, per quanto possibile, pigrizia mentale, conformismo e passività.
Per il resto, è senz’altro vero che il compito degli insegnanti è ben più ampio di quello strettamente legato alla valorizzazione dei “più bravi della classe”: essi non sono certo chiamati ad alimentare quello spirito competitivo tra gli studenti che con l’abolizione dei voti si pretenderebbe di eliminare, ma a favorire i momenti di condivisione, partecipazione e di libero e argomentato confronto (anche aspro) tra le idee. Lavorare a scuola significa mettersi in gioco con tutto se stessi, facendosi tramite di una sapere interrogante che interagisca il più possibile con le esperienze e la sensibilità degli adolescenti, oltre le singole nozioni che si intende veicolare.
Naturalmente i problemi legati all’insegnamento non possono essere del tutto imputati alla responsabilità dei docenti. Un modo diverso di fare scuola passa necessariamente per la messa in discussione del sistema politico, culturale ed economico che governa il mondo dell’istruzione e che indirizza, con sempre maggiore precisione, i processi di trasmissione del sapere in maniera compatibile e funzionale con le sue logiche.
Questo apparato politico, culturale ed economico di matrice neoliberale promuove una progressiva iper-tecnicizzazione e standardizzazione delle cosiddette competenze, le stesse che servono a formare quei “dirigenti di domani” ai quali affidare le chiavi per sancire l’immodificabilità degli assetti di potere esistenti.
In quest’ottica non c’è spazio per un pensiero che spieghi perché e per chi quelle “competenze” sono necessarie, non c’è spazio per slanci di creatività e di pensiero libero oltre i rigidi confini dei programmi scolastici e il perimetro sempre più ristretto di ciò che può essere oggetto di studio, dibattito e confronto.
Insomma, finché la scuola non sarà il luogo di un sapere critico estraneo alle lusinghe e alle utilità del proprio tempo, le “trovate” di cui sopra altro non saranno che uno specchietto per le allodole di un settore, quello dell’istruzione, intento spesso a nascondere, sotto un tocco colorato di vernice, i tarli nel legno di una struttura sempre più traballante.
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Il tarlo della scuola è la crisi del pensiero ultima modifica: 2023-01-04T16:13:28+01:00 da