Imparare a scrivere: meglio con la penna o con il tablet?

di Francesco Provinciali, Mente politica, 13.11.2021.

L’uso della penna e della matita depone a favore di una manualità necessaria a scuola ma anche nella vita: non sempre possiamo avere a portata di mano un pc o un tablet per scrivere un testo, fosse anche un semplice biglietto di auguri o la lista della spesa.

Per un Paese come la Finlandia che destina oltre il 7% del PIL nazionale alle spese di istruzione decidere di abolire l’apprendimento della lingua scritta con il corsivo per sostituirlo con l’uso del tablet in classe da parte di ciascun alunno fin dal primo anno della scuola dell’obbligo potrebbe rivelarsi nel tempo una scelta lungimirante, visto che le scuole della Repubblica Finlandese sono considerate dall’OCSE tra le più avanzate al mondo in quanto a metodologie didattiche ed efficienza-efficacia del sistema formativo. Occorre tuttavia un fisiologico periodo di sperimentazione prima di arrivare a conclusioni enfatiche o affrettate. Tutto questo è peraltro già in atto dal 2016: l’introduzione dell’apprendimento della letto-scrittura attraverso le tecnologie informatiche sta avvenendo in forma estensiva ma graduale, il corsivo è sostituito dalla digitazione della tastiera ma la scrittura a stampatello continuerà ad affiancare il nuovo metodo come insegnamento facoltativo (Finnish National Agency for Education EDUFI – Istituto Nazionale per l’Educazione Finlandese). Ciò comporta non solo un grande investimento in dotazioni tecnologiche ma anche una preliminare e obbligatoria formazione del personale docente all’uso quotidiano in classe dei mezzi informatici. Il livello di padronanza delle nuove tecnologie nelle giovanissime generazioni già prima del loro ingresso a scuola dovrebbe rendere più facile il compito dei docenti che si troveranno di fronte alunni strumentalmente già attrezzati rispetto al compito di apprendere l’uso della scrittura attraverso la digitazione ma di cui dovranno naturalmente conoscere le regole grammaticali, logiche e sintattiche. Il condizionale è d’obbligo se si considera questa scelta avanzata e coraggiosa ma con incognite non lievi nel lungo periodo e in controtendenza rispetto agli indirizzi didattici di altri Paesi, a partire dall’Europa, dove l’introduzione della tecnologia a scuola (e negli stili di vita dei bambini e degli adolescenti) inizia a riservare imprevisti e sorprese. A cominciare dalla lente e inesorabile sostituzione del “grammaticalmente corretto” con modalità espressive deregolamentate: si ricorda la denuncia di 600 docenti universitari italiani circa il livello culturale mediamente basso dei loro allievi, già appartenenti alla generazione dei nativi digitali. Per non parlare di una precedente ricerca del compianto Tullio De Mauro da cui emergeva lo spaccato di una società dove il 70% degli italiani è semi- analfabeta o affetto da una sorta di analfabetismo di ritorno: questa è infatti la percentuale di coloro che non sono in grado di leggere e comprendere un testo definito “di media difficoltà”.

Errori madornali nell’uso del linguaggio parlato e scritto, congiuntivi al posto dei condizionali, punteggiatura inesistente, accenti e apostrofi fuori luogo sono il risultato di una rapida obsolescenza della lettura e della scrittura, sia sul piano delle regole linguistiche che su quello della comprensione e del padroneggiamento dei contenuti. Nuovi alfabeti insidiano i vocabolari e molte parole rischiano di diventare desuete se non estinte. Da alcuni anni il governo spagnolo d’intesa con la Escuela de Escritores ha lanciato una campagna tendente a salvare l’idioma nazionale e le parole che vanno scomparendo nel linguaggio comune, sostituite da stranierismi furtivi e dagli anglicismi dell’informatica e del web.

Proprio dal 2016 (dunque in direzione opposta alla scelta finlandese) il Ministro dell’istruzione francese ha reintrodotto l’obbligatorietà del dettato in classe, a partire proprio dal livello dell’obbligo formativo e quindi dell’apprendimento linguistico di base.

Riproponendo la prassi delle poesie mandate a memoria e della correzione lessicale degli strafalcioni linguistici cui la pedagogia della facilitazione didattica e della sufficienza per tutti aveva abituato anche i più severi cugini d’oltralpe.

Per non tacere del precipitoso recupero dell’apprendimento delle tabelline nelle scuole del Regno Unito dove agli studenti del quarto anno di scuola primaria (quindi dai nove anni di età) viene – sempre dal 2016, quindi in tempi non sospetti di Brexit – imposto di impararle a memoria “fino a quella del 12”.

Ciò non tanto per ragioni meramente nozionistiche quanto come conseguenza di un avvertito declino del cosiddetto “pensiero sequenziale”, rispetto al quale imparare la matematica e padroneggiare l’uso dei numeri equivale ad imparare a scrivere e ad utilizzare correttamente le parole, rivalutando la logica e il ragionamento fino alla comprensione di senso del leggere, dello scrivere e del contare.

Quell’imparare a “leggere, scrivere e far di conto” che costituiva l’obiettivo fondamentale sancito dai programmi didattici del 1955 della nostra scuola elementare e che corrispondeva da un lato alla necessità di un’alfabetizzazione di massa della popolazione italiana del dopoguerra e dall’altro, più ambiziosamente, riassumeva il senso fondativo della cultura basilare, strumento di riscatto e di emancipazione oltre i target sociali di appartenenza, quindi di democrazia comunicativa.

Principi che restano validi – mutatis mutandis – anche in epoca di globalizzazione e di uso pervasivo delle nuove tecnologie e dell’universo informatico. Pur con osservazioni divergenti lo ha confermato il Presidente CENSIS Prof Giuseppe DE Rita in un recente saggio sulla storia del nostro sistema di istruzione: la tradizione implica continuità ed evoluzioni lente e graduali..

Si può dire che anche l’impianto scolastico del nostro Paese sia orientato ad un mix di tradizione e innovazione. Per questo sarà molto difficile – ove ciò non avvenga in forma sperimentale – che anche sui nostri banchi le matite, le penne, il temperino, la gomma e tutto l’armamentario dell’astuccio siano “sostituiti” in modo definitivo e radicale dall’uso delle dotazioni tecnologiche.

La via italiana – fondata su una cultura solidamente umanistica di più antica deriva di quella finlandese – non espunge l’apprendimento tradizionale della letto-scrittura ma lo affianca con un uso misurato delle nuove tecnologie.

Ci sono anche motivazioni metodologiche e didattiche ragionevoli a sostegno di questa scelta.

L’uso della penna e della matita depone a favore di una manualità necessaria a scuola ma anche nella vita: non sempre possiamo avere a portata di mano un pc o un tablet per scrivere un testo, fosse anche un semplice biglietto di auguri o la lista della spesa.

La pratica del corsivo rende la scrittura un atto unico in sè, quasi un aspetto della propria personalità, un’impronta di carattere e di stile individuale che ci rende diversi e riconoscibili: rinunciare ad esprimere questa singolare peculiarità del proprio essere persona potrebbe introdurre pericolosi tratti di omologazione comunicativa e culturale.

Non per niente – quasi come fosse una tendenza reattiva al dilagare dello stampatello digitalizzato – stanno diffondendosi a macchia d’olio i corsi di calligrafia e bella scrittura, per affinare una modalità espressiva formalmente gradevole, ordinata, devota verso le regole dello scrivere bene, sia dal punto di vista estetico che da quello dei contenuti.

Va inoltre considerata la contingenza del lungo periodo di pandemia che stiamo attraversando, durante il quale la DAD ha sollevato più di una perplessità: sul piano didattico in senso stretto, per i limiti della sua applicabilità ai diversi ordini di scuola, per la mancata copertura del target di utenza a livello nazionale (il 30% delle famiglie al sud non ha connessione internet) ma soprattutto per il venir meno del rapporto diretto e in presenza tra docenti e studenti, che ha una valenza sia metodologica sia di gratificazione relazionale.

Ha sorpreso che gli stessi ragazzi che usano il tablet e lo smartphone con estrema disinvoltura, facilità e frequenza siano scesi in piazza per rivendicare un ritorno alla didattica in presenza, lamentando il venir meno di una dimensione umana, interlocutoria ed empatica dello studio.

Questa è stata una grande lezione anche per quegli adulti che vedono solo nelle tecnologie e nella digitalizzazione il futuro a senso unico della didattica e della formazione delle giovani generazioni.

Non esiste in senso assoluto un modo più efficace degli altri per imparare a leggere e a scrivere, rispetto ai mezzi e agli strumenti affidati alla nostra mano.

Occorre se mai facilitare l’apprendimento e l’utilizzo di più modalità: non abbandonare ciò che la tradizione ci consegna affinché la cultura appresa e tramandata venga conservata come una ricchezza acquisita da tutelare. E aprirsi con gradualità e uso del discernimento critico a ciò che il progresso ci offre e a cui non possiamo sottrarci o rinunciare.

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Francesco Provinciali, già dirigente ispettivo MIUR

 

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Imparare a scrivere: meglio con la penna o con il tablet? ultima modifica: 2021-11-17T06:05:56+01:00 da
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