di Rossella Latempa, Roars, 3.4.2019
– Dal Convegno “SCUOLA DI COMPETENZE: VERSO UN NUOVO MODELLO DIDATTICO. QUALE?”, Gilda degli Insegnanti, Vicenza 18 marzo 2019
– E’ in arrivo la misurazione standardizzata delle soft skills degli studenti italiani, “quella gamma di qualità personali, spesso descritte come dimensioni non accademiche e non cognitive dell’apprendimento. Categorie come auto-controllo, benessere, perseveranza, felicità, resilienza, mentalità aperta, grinta, intelligenza sociale, “carattere” e tutto ciò che deriva dalla fusione “psico economica” della psicologia positiva con l’economia comportamentale”. Per la nuova “scienza delle soft skills” i “tratti” del carattere degli studenti sono veri e propri indicatori econometrici, da quantificare e ottimizzare fin dalla prima infanzia, perché determinanti del benessere prima individuale e poi sociale. Il nostro Istituto di Valutazione INVALSI ci lavora da tempo, in collaborazione con il prof. Vittadini, economista milanese che già un anno fa si domandava “come diagnosticare i problemi di carattere” degli studenti, ipotizzando di trovare “un accordo sulle dimensioni “utili” del carattere”, che avrebbe permesso (alle scuole) di “diagnosticare, calibrare” considerando non solo le “dimensioni psicologiche”, ma anche “sintomi clinici, spettro di sintomi [..] eziologia, specificità per categorie a rischio..”. Dal 12 marzo sappiamo quali progetti di misurazione standardizzata INVALSI ha già in cantiere: problem solving collaborativo, imparare ad imparare e pensiero creativo. Il percorso è tracciato: entro due anni i primi test dovrebbero arrivare a un campione di scuole (studenti dagli 8 ai 17 anni). La nuova scienza dell’educazione basata “sui dati” si appresta a includere all’interno della visione riduzionista e meccanicistica della valutazione standardizzata anche psicologia, motivazioni, creatività, attitudini, comportamenti, secondo l’ “illusione di uomo modulare”, inteso come essere componibile, artefatto, con competenze hard e soft da misurare e ottimizzare in funzione della massima espansione di sé e del proprio tornaconto economico.
Con il termine soft skills, non cognitive skills, life skills, o socio-emotional skills[1] si indica “comunemente quella gamma di qualità personali, spesso descritte come dimensioni non accademiche e non cognitive dell’apprendimento. Categorie come auto-controllo, benessere, perseveranza, felicità, resilienza, mentalità aperta, grinta, intelligenza sociale, “carattere” e tutto ciò che deriva dalla fusione “psico economica” della psicologia positiva con l’economia comportamentale” [2].
Così il prof. Ben Williamson, della Facoltà di Scienze sociali dell’Università di Stirling, Regno Unito, descrive il recente campo di interesse di quella comunità transnazionale fatta di organizzazioni governative e non, agenzie pubbliche e private, think thanks e gruppi accademici di varie aree disciplinari[3], capace di incidere e dettare indirizzi economico-politici in campo educativo anche a livello nazionale[4].
Il recente investimento in termini di ricerche e risorse nel campo delle soft skills, a dispetto del linguaggio impiegato (che fa riferimento a temi come benessere emotivo, attitudini morali e comportamentali, tratti della personalità, della “singolarità” umana di ciascuno etc.), va letto tuttavia in una chiave ben precisa, ovvero nell’ottica dell’idea, oggi dominante, di “educazione basata sui dati”, “sulle evidenze”.
Le soft skills, in poche parole, devono essere interpretate come nuove categorie concettuali da standardizzare, misurare e confrontare, anche in contesti diversi. Il nuovo approccio all’educazione “basato sulle evidenze”, quella “combinazione di esperienza professionale in ingegneria informatica, statistica, psicologia cognitiva, neuroscienze, scienze dell’apprendimento, psicometria e bio-informatica; tecniche e metodi come la capacità di trarre informazioni da grandi quantità di dati (data mining), il machine learning, l’analisi predittiva e l’analisi di reti complesse (network analysis) [..]” che ha interesse (sia accademico/scientifico che di mercato)[5] a “misurare e prevedere i progressi e la realizzazione [degli obiettivi] degli studenti, ottimizzando l’apprendimento e l’ambiente in cui esso avviene”[6]converge a grandi passi verso il campo delle soft skills.
1. Lo scenario internazionale
In quel processo che alcuni autori hanno ribattezzato “datification delle socio-emotional skills”[7], un ruolo chiave è stato svolto dall’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica (OCSE – OECD nei riferimenti bibliografici), come di recente abbiamo già segnalato.
Attraverso il suo Centro di Ricerca ed Innovazione Educativa (CERI), l’OCSE ha svolto un poderoso lavoro di raccolta e stabilizzazione di un gran corpo di ricerche di tipo psicometrico sulle competenze socio-emozionali, il cui scopo è stato quello di costruire un “apparato” di oggettività e di consenso internazionale attorno all’idea che un certo insieme di tratti psicologici, atteggiamenti o elementi del carattere degli studenti possano essere tradotti in una nuova metrica di indicatori quantificabili, standardizzabili e sistematizzabili in scale e referenziali, che li rendano confrontabili anche tra contesti diversi, esattamente come è accaduto nel tempo per le hard skills (le competenze base in lingua, matematica e scienze misurate dai test OCSE-PISA). Contribuire a costruire la nuova “scienza delle soft skills”, un mix tra scienza dei dati e scienze psicologiche: questa la missione dell’OCSE.
Nel 2014, il rapporto “Fostering and mesuring skills: improving cognitive and non cognitive skills to promote lifetime success” è tra i primi sul tema, e tra gli autori vede nomi autorevoli come quello del prof. J. J. Heckman, economista americano celebre per la sua “Equazione di Heckman”, che misura il ritorno in investimento in funzione della qualità e della tipologia di programmi educativi attuati nella prima infanzia (già incontrato qui); nel 2015 segue “Skills for social progress: the power of socio-emotional skills”, in cui, in apertura si afferma che “ciascuno è in grado di riconoscere l’importanza delle competenze sociali ed emotive, tuttavia c’è ancora mancanza di consapevolezza su cosa sia utile (what works) per accrescerle, misurarle e promuoverle”[8], poi si formalizza l’assunto-base dell’intero quadro concettuale: cioè che “misurare le competenze sociali ed emozionali è arduo, ma possibile e affidabile”[9]. Nel rapporto “Social and emotional skills for student success and well-being” del 2018, viene presentato il progetto denominato Study of Socio Emotional Skills(SESS), basato sul ben noto modello “Big Five”, che categorizza in 5 macro domini – “[aventi] valore predittivo e relazioni con importanti risultati nella vita”[10] – i diversi tratti delle personalità umane: apertura mentale, regolazione delle emozioni, collaborazione, performatività, impegno con gli altri. Sebbene il modello Big Five “derivi da ricerche sugli adulti”, l’OCSE riporta un gran numero di esempi di ricerche internazionali che, pur misurando diversi tratti “del temperamento della prima infanzia”[11], possono significativamente essere ricondotti (well fitting) alle macro-categorie Big Five. D’altra parte, “le socio-emotional skills [sono] malleabili”; e siccome i “cambiamenti sostanziali avvengano nella prima infanzia e nell’adolescenza”, è fondamentale agire precocemente per promuovere le “giuste” soft skills. Le “evidenze mostrano come interventi pianificati e sistematici [..] possano migliorarle con successo”[12].
L’OCSE non si limita a farsi garante e promotrice della misurabilità e della “scientificità” delle soft skills di bambini e adolescenti, ma compie un passaggio ulteriore: investe le soft skills di imperativi economici, trasformando le competenze trasversali degli studenti in veri e propri indicatori econometrici, determinanti e predittori del benessere prima individuale e poi sociale.
Le soft skills sono “attributi personali, disposizioni relativamente stabili, indipendenti dalle capacità cognitive, potenzialmente reattivi ad interventi esterni, dipendenti da fattori di contesto e vantaggiosi per un vasto range di risultati nella vita (life outcomes)”[13] la cui rilevanza è “dimostrabile per un ampio range di obiettivi [..pertanto..] importante oggetto di interesse politico” [14]: così afferma il rapporto “Personality matters: relevance and assessment of personality characteristics”, 2017.
“Scientificità” e rilevanza politica, basate sull’oggettività di metodi standardizzati di misurazione e comparazione di tratti della personalità umana trasformati in nuova priorità economica, perché capaci di incidere sulla produttività individuale e sociale. Un vero e proprio “realismo metrico”[15], che dietro l’apparente neutralità e indipendenza dell’ apparato di codifica numerica costruito e impiegato, omette l’immenso processo di disciplinamento, semplificazione e riduzione necessari per tradurre la complessità psicologica e la singolarità umana in variabili matematiche. Il progetto dell’OCSE è ben sintetizzato dall’ immagine seguente (Fig.1), rappresentazione concreta del life long learning, della costruzione del soggetto competente, il cui percorso di vita è una scalata verso la vetta del life outcome – il successo – che si svolge all’interno di un sistema immutabile, rappresentato dal “sole” del contesto socio-economico.
Un sole che splende più per alcuni e meno per altri, come dato di natura, e sotto il quale l’individuo non può che darsi da fare e procedere lungo un percorso monitorato e lastricato di test: da quelli sulle competenze emergenti, sia emotive che cognitive, i test Baby Pisa a quelli sulle socio-emotional skills di 10 e 15 anni, senza trascurare le hard skills, da misurare sia nell’adolescenza che nell’età adulta (test PISA, 15 anni e test del programma PIIAC sulle competenze degli adulti, 16-65 anni).
Tra le indagini (campionarie) che l’Organizzazione ha strutturato in corrispondenza dei vari traguardi di crescita, quella sulle competenze cognitive dei 15enni (Test PISA) ha visto coinvolti, a partire dal 2000 con cadenza triennale, anche i nostri studenti attraverso l’istituto di valutazione INVALSI.
La vera novità è l’adesione di un campione di studenti italiani (dai 6 ai 15 anni) ai nuovi studi sulle Socio-Emotional Skills (OCSE SESS – Socio Emotional Skills Study e OCSE LSEC – Longitudinal Study of Socio Emotional Skills in the cities), segnalati qui e tuttora in corso.
Difficile reperire informazioni sui siti istituzionali MIUR e INVALSI, in cui non c’è traccia – finora – né del quadro metodologico né delle finalità delle indagini. Eppure sui siti di tante scuole italiane è possibile leggere circolari che invitano i dirigenti scolastici ad aderire alle prime rilevazioni standardizzate del “carattere” degli studenti. La “catena di comando” parte dal MIUR, passa attraverso i centri territoriali (Uffici Scolastici Regionali) e arriva nelle scuole tramite i dirigenti e gli insegnanti, sempre più solerti nel rispondere alle sollecitazioni gerarchiche.
2. Il quadro nazionale
Su scala nazionale, in diverse realtà, è già iniziata la misurazione standardizzata delle competenze trasversali di bambini e adolescenti.
Negli USA, l’Office of Educational Technology del Department of Education, nel 2013 ha pubblicato un rapporto dal titolo significativo: “Promoting grit, tenacity and perseverance” e, a due anni di distanza, una nuova legge federale Every student Succeeds Act (ESSA) ha reso obbligatorio “includere misure del carattere [degli studenti] nei [..] sistemi di accountability”.
Nel Regno Unito il programma “Social and emotional aspects of learning (SEAL)” , che prevede “la misura dell’impatto di alcune competenze trasversali[..] su una varietà di risultati degli studenti” è già “implementato in circa il 90% delle scuole primarie e 70% di secondarie”. Anche la fondazione privata inglese Education Endowement – nota per i suoi “toolkit” educativi, criticati da diverse e autorevoli voci, tra cui quella del prof. G. Biesta, che non ha esitato a definire l’idea di educazione come “input-output causal system” buona solo per una “pig farming school” – ha strutturato un Socio Emotional Learning toolkit: una sorta di “cruscotto” attraverso cui calibrare, in termini di efficienza e costi, le pratiche e gli interventi d’impatto sulle competenze trasversali.
Anche in Italia, oltre alla partecipazione dei nostri studenti agli studi internazionali, sono iniziate ufficialmente le grandi manovre.
“Non è forse arrivato il momento di esigere ben altro dai sistemi educativi? Imparare a vivere, imparare a imparare”, ha dichiarato in un recente editoriale la Presidente dell’INVALSI Ajello.
Già nel febbraio 2018 il Centro Studi della Chiesa Cattolica dedicava una giornata di lavori alla “Sfida educativa delle soft skills”; nel marzo successivo, durante il seminario ad invito MIUR – INVALSI in cui venivano presentati i nuovi quesiti di matrice psicologica introdotti nel “Questionario Studente” associato ai test 2018, il prof. Giorgio Vittadini, economista milanese, sottolineava l’importanza della misurazione delle skills non cognitive; ancora, nel maggio 2018, sempre MIUR e INVALSI tenevano un altro seminario ad invito sul tema “Soft skills e competenze chiave: alla ricerca di punti di contatto”. Infine, nel dicembre scorso, il nuovo ministro Bussetti costituiva una commissione ministeriale dedicata proprio alle soft skills, considerate tra le priorità del nuovo esecutivo.
La via italiana delle soft skills sembra dunque tracciata.
Per capire la direzione su cui ci incamminiamo, vale la pena dare un’occhiata a qualche passaggio tra i più significativi della relazione del prof. Vittadini, recentemente resa pubblica sul sito del Sistema Nazionale di Valutazione italiano[16]. Il professore, che attualmente dirige il progetto triennale sullo “Sviluppo delle competenze non cognitive negli studenti Trentini”, sembra partire da un presupposto nobile: superare il funzionalismo della scuola attuale, schiacciata sulla misurazione di abilità cognitive (mediante test standardizzati), che non colgono dimensioni umane fondamentali quali “lo sviluppo del carattere, della socialità e, ancor meno, delle doti morali”. Come fare? La diapositiva riportata in Fig.2, che cita la letteratura di riferimento, sembra suggerire la soluzione: misurare (finalmente!) anche le non cognitive skills (NCS) Ma come?
Ad esempio con i test Big Five, i test di Rosenberg e Rotler, i test sul capitale psicologico, suggerisce Vittadini. Semplice, quindi: per superare l’attuale riduzionismo scolastico basta fare altri test! Ma diamo un’occhiata qualche pagina oltre (Fig. 3). Qui, la questione che pone l’autore, è di tutt’altro tenore: come diagnosticare problemi di carattere?
In effetti, per chi lavora a scuola, non è poi così inusuale avere a che fare con studenti “problematici”, riottosi, o studenti introversi, poco disponibili al dialogo. Bisognerà pur porsi il problema di tutti quei ragazzi poco empatici, poco collaborativi, non grintosi, non ottimisti, resilienti, musoni.
Cosa sarà di loro, cosa se ne farà la società del XXI secolo, di studenti simili? Certo, “se si trovasse un accordo sulle dimensioni “utili” del carattere”, suggerisce Vittadini, allora sì che la scuola potrebbe agire, “diagnosticare, calibrare”. Considerando non solo le “dimensioni psicologiche”, ma anche “sintomi clinici, spettro di sintomi [..] eziologia, specificità per categorie a rischio..”. Un lavoro di fino, “scientifico” insomma. Ecco infine l’auspicio conclusivo (Fig. 4): è importante sviluppare, prima a titolo sperimentale e poi via via in modo stabile e istituzionalizzato, i test INVALSI sulle soft skills (NCS).
3. Arriviamo, dunque, a pochi giorni fa.
Il 12 Marzo scorso, ad un anno esatto da quell’auspicio, si riuniscono al MIUR, tra gli altri, il Presidente INVALSI, Ajello, il responsabile area prove, Ricci, e ancora una volta il prof. Vittadini.
I materiali del seminario, sempre ad invito, resi pubblici il 13 marzo, vanno letti con grande attenzione, perché interesseranno – nonostante l’assoluta mancanza di dibattito interno alle scuole e con le scuole, considerate come puri centri di sperimentazione e raccolta-dati prodotti da modelli elaborati altrove – il futuro degli studenti e il lavoro degli insegnanti italiani.
Prendiamo qui in considerazione i due interventi del nostro istituto di valutazione INVALSI, da cui sono tratte le immagini che seguono[17].
La presidente Ajello presenta “indicazioni e prospettive” nel campo delle soft skills, distinguendo le competenze – chiave, più “concrete”, associate a quanto i nostri studenti sono capaci di “funzionare in gruppi eterogenei” o “funzionare nella vita pratica”, dalle life skills, più eterogenee (pensiero creativo, pensiero critico, empatia, gestione dello stress etc.). Che si tratti dell’una o dell’altra, tuttavia, Ajello è convinta: indagarle (e misurarle) rappresenta “una rivoluzione copernicana negli studi dell’apprendimento”.
Dal punto di vista educativo, bisognerà ripensare i curricoli scolastici, strutturare i giusti “obiettivi” e i “modi condivisi per raggiungerli”, “negoziare criteri di verifica tra docenti”. Sembrerebbe – a quanto capiamo –che possa trattarsi di pratiche di valutazione “a validità locale”, salvo poi leggere che sarà necessaria una “esplicitazione accurata di quadri di riferimento condivisi per la valutazione standardizzata”.
Le competenze da misurare potrebbero essere due: imparare ad imparare e problem solving, che la Presidente illustra nella parte successiva della sua relazione, inquadrandole sia dal punto di vista della letteratura internazionale (gli studi finlandesi di Hautamaki e Kupiainen del 2014, quelli di Sfard e Prusak del 2007 sulla relazione identità e apprendimento – in particolare per la matematica, gli studi di psicologia cognitiva sulle abilità di problem solving, Glazer 1985) che nella ben nota “prospettiva del life long learning”, ossia di massima valorizzazione del capitale umano. Il nodo resta comunque quello della misurazione. Se per il problem solving esistono modalità di verifica standardizzabili, a quanto pare, per l’imparare ad imparare si è ancora in fase di ricerca: i ricercatori INVALSI T. Patera e C. Stringher ci stanno lavorando .
Come valutare, allora, le soft skills degli studenti italiani in modo standardizzato? A questa domanda prova a rispondere il responsabile Area Prove INVALSI, R. Ricci, nella relazione successiva.
La metodologia e letteratura di riferimento, richiamate esplicitamente, sono quelle degli studi internazionali dell’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica (in particolare gli studi OCSE di Heckman e Kautz: Fostering and Measuring skills del 2014), da inserire in un quadro valoriale e culturale nazionale. Nell’osservazione di una competenza finalizzata al raggiungimento di un obiettivo (task performance) si evidenziano determinanti sia di tipo cognitivo che di diversa natura: incentivi, impegno, character skills. Tutti questi fattori vanno presi in considerazione, nell’ottica di una standardizzazione del processo (dunque sono tutti fattori da matematizzare, separare, e poi correlare e far interagire attraverso opportuni modelli).
Riguardo l’età della platea di studenti di cui misurare “il carattere”, Ricci ricorda che sarebbe importante partire già da 0 a 6 anni: è proprio la primissima infanzia quella che presenta la maggiore duttilità, oltre che il maggior ritorno in investimento, come insegna Heckam; tuttavia la neuroscienza suggerisce anche l’importanza dell’adolescenza, come fase della vita in cui ”sono particolarmente plastiche regioni del cervello che consento lo sviluppo dell’autoregolazione [..] e in cui si può sviluppare il senso della responsabilità”.
Con “prudenza e semplicità di disegno”, ci rassicura il dirigente INVALSI, sarà possibile una misurazione su larga scala delle prime tre competenze trasversali: pensiero creativo, problem solving e problem solving collaborativo.
L’Istituto di Valutazione è già pronto: le fasi della costruzione dei test INVALSI sulle soft skills sono presentate nelle pagine successive.
FASE 1: “Definizione e condivisione dell’oggetto di osservazione”, con “predisposizione del quadro di riferimento, degli aspetti da osservare e misurare..”;
FASE 2: “Costruzione degli strumenti”, con “sviluppo in ambiente digitale (tablet) [..], revisione qualitativa e test sul campo [..], predisposizione definitiva degli strumenti formativi e sommativi”;
FASE 3: “Scuole coinvolte”, circa 180 scuole primarie, bambini di 8 anni e 10 anni (grado 3, grado 5); 180 scuole secondarie di primo grado, ragazzini di 12 anni (grado 7) e 180 scuole secondarie superiori, ragazzi di 14 e 17 anni (grado 9 e grado 12).
La timeline è predisposta, tempo due anni e avremo le prime misure standardizzate delle soft skills degli studenti italiani, un’impresa di importanza strategica, scientifica e culturale, conclude il dirigente INVALSI: una “sfida di equità agita”.
I test standardizzati targati INVALSI – ormai lo sappiamo – paiono voler dire oggettività, certezza, uniformità. Oggi, tuttavia, in piena esplosione di disuguaglianze economico-sociali e culturali a livello internazionale, sembrano assumere una connotazione e giustificazione morale diversa: non solo “scientificità”, ma anche equità, uguaglianza di opportunità.
È questo il nuovo seducente binomio (test/equità educativa), con cui le misurazioni standardizzate vengono promosse. Una chiave di lettura di grande impatto sull’opinione pubblica, ripetuta in modo spesso acritico e alquanto superficiale anche da voci e stampa autorevoli. Sottoporre ai test INVALSI gli studenti, invece che prendere in considerazione le valutazioni e i giudizi professionali ben ancorati ai contesti degli insegnanti che ne hanno curato il percorso, oggi sarebbe una questione di “giustizia sociale”, indipendentemente da eventuali interventi politici ex post, che i risultati di quegli stessi test sembrerebbero suggerire (ridefinizione di finanziamenti e risorse pubbliche, maggiore sostegno alle aree più depresse economicamente o culturalmente, etc.). Non si tratta certo di una re-interpretazione solo italiana dell’uso dei test in chiave sociale. La storia dei sistemi di accountability internazionali è lunga e ben documentata: basta leggere il susseguirsi di nomi-slogan delle leggi federali americane, dal No child Left Behind Act di Bush al Every Student Succeeds Act di Obama (ad es. in J. Z. Muller in The tiranny of Metrics) o il sottile e progressivo slittamento registrato nel linguaggio della valutazione standardizzata (in “The language of corporate reform” , di D. Ravitch in Reign of Errors). Non è questa, dunque, la novità.
La novità è un’altra: includere all’interno della visione riduzionista e meccanicistica della valutazione standardizzata anche la complessità della singolarità umana – psicologia, motivazioni, creatività, attitudini, comportamenti – secondo quella che Benasayag definisce “illusione dell’uomo modulare”: un essere componibile, artefatto, con competenze hard e soft da quantificare ed ottimizzare.
Sono giorni, i nostri, scriveva Giorgio Israel, in cui “l’approccio meccanicistico riduce la complessità del reale a modelli matematici, ad algoritmi che pretendono di essere l’unica chiave di conoscenza. Un tempo, il nostro, in cui si pretende che solo quantificandola in qualche modo la realtà” – e oggi anche l’essere umano, aggiungiamo – “ possa essere conoscibile, mentre, per dirla con il filosofo francese Alain Finkielkraut, “tutto il resto è letteratura”.
NOTE
[1] La letteratura internazionale utilizza una terminologia variegata per riferirsi all’insieme delle competenze non cognitive. Qui, per semplicità si utilizzeranno le varie accezioni in maniera equivalente. Una sistematizzazione dei diversi quadri di riferimento è svolta dall’INVALSI nel 2018, e presentata durante un seminario tematico ad invito, dai ricercatori T. Patera e C. Stringher, reperibile qui: http://www.istruzione.it/snv/allegati/2018/Slide%20Stringher%2023_05_2018_v3.pdf
[2] B. Williamson, Moduling student emotions through computational psycology: affective learning technologies and algoritmic governance, in Educational Media International, vol. 54, nr 4, 2017, pag.273. Il grassetto ed i collegamenti ipertestuali, oltre che la traduzione, sono di chi scrive.
[3] Basti pensare all’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica (OCSE), all’UNESCO, alla stessa Unione Europea, al World Economic Forum, alla Banca Mondiale o ad organismi privati come CASEL, i cui lavori sono citati nelle ampie documentazioni dell’OCSE. Nella bibliografia di seguito ci si riferirà all’OCSE col termine derivato dall’acronimo ingelse, OECD.
[4] La letteratura internazionale sul cosiddetto PISA shock o sulla globalizzazione dell’educazione è numerosissima. Solo alcuni esempi: C. Radaelli, “Europeanisation: solution or problem?”, EIoP vol.8, 2004; C. Laval e L. Weber, “Le nouvel ordre educatif mondial”, Paris, Editions Nouveaux regards, 2002, A. Novoa “Governing without governing – The formation of a European educational space”, Routledge International Handbook of the Sociology of education, 2010; A. Baroutsis and B. Lingard PISA-shock: how we are sold the idea our PISA rankings are shocking and the damage it is doing to schooling in Australia in http://www.aare.edu.au/blog/?p=2714 ; F. Waldow What PISA Did and Did Not Do: Germany after the ‘PISA-shock’ in European Educational Research Journal Vol. 8, nr 3, 2009; S. Ninimiya The impact of PISA and the interrelation and development of assessment policy and assessment theory in Japan in Assessment in Education: Principles, Policy and Practice, 2016; S. Grek Governing by numbers: the PISA effect in Europe in Journal of Educational Policy, Vol. 24, nr.1, 2009; M. Davoli and H. Entorf The PISA Shock, Socioeconomic Inequality, and School Reforms in Germany, Policy paper August 2018 of IZA Institute of Labour Economics.
[5] Applicazioni della data science education sono state sviluppate non solo in ambito accademico, ma soprattutto nel settore commerciale delle tecnologie legate all’educazione: vedi B. Williamson in Silicon startup schools: technocracy, algorithmic imaginaries and venture philanthropy in corporate education reform, in Critical studies in Education, vol. 59, 2018 e bibliografia in esso contenuta.
[6] B. Williamson, cit. pag. 273.
[7] B. Williamson, cit. pag. 274.
[8] OECD 2015 : “Skills for social progress: the power of socio-emotional skills”, pag. 3, https://nicspaull.files.wordpress.com/2017/03/oecd-2015-skills-for-social-progress-social-emotional-skills.pdf , traduzione di chi scrive.
[9] Ivi, pag. 36.
[10] OECD 2018 “Socio and emotional skills for student success and well being”, pag. 21, traduzione di chi scrive.
[11] Ivi, pag. 46 e seguenti. In particolare, l’OCSE segnala le ricerche di Mervielde and DeFruyt (1999), su campioni di bambini belgi dai 5 ai 13 anni; Halverson et al. (2003) su campioni di bambini provenienti da 8 paesi, dai 3 ai 12 anni e quelle di Tackett et al. (2012), su bambini e adolescenti di 5 paesi dai 9 ai 14 anni.
[12] Ivi, pag. 113, traduzione di chi scrive.
[13] OECD-CHRR-Socio Emotional Skills Study (SESS), https://chrr.osu.edu/projects .
[14] OECD 2017: “Personality matters: relevance and assessment of personality characteristics”, OECD Education working papers n. 157, 2017, pag. 4, traduzione di chi scrive.
[15] B. Williamson, N Piattoeva, “Objectivity as standardization in data-scientific education policy, technology and governance”, in Learning Media and technology, 2018, pag. 6.
[16] I riquadri in rosso nelle immagini tratte dalla relazione di Vittadini sono stati aggiunti da chi scrive.
[17] I riquadri in rosso sono stati aggiunti da chi scrive.
Slides dell’intervento di Rossella Latempa al Convegno “SCUOLA DI COMPETENZE: VERSO UN NUOVO MODELLO DIDATTICO. QUALE?”, Gilda degli Insegnanti, Vicenza 18 marzo 2019.
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INVALSI: in arrivo i test per valutare empatia, grinta e auto-controllo (del futuro lavoratore ideale) ultima modifica: 2019-04-04T02:32:33+02:00 da