La “Buona Scuola” del Recovery Plan

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Roars, 3.2.2021.
Gilda Venezia

A partire dai dati dell’OCSE, letti in maniera parziale – quando non errata – la bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza individua una serie di interventi di riforma di tipo organizzativo -didattico – gestionale e di ordine contrattuale. Carriera docenti e middle management; nuove forme di reclutamento e formazione in servizio obbligatoria e agganciata agli scatti; limiti alla mobilità territoriale; incentivi salariali sulla base di parametri standard, tra cui i risultati ai test INVALSI; orientamento per gli studenti a vocazione “territoriale” per superare lo “skill mismatch”;  moduli di discipline STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) fin dalle scuole d’infanzia; maggiore autonomia delle istituzioni scolastiche, dunque maggiore potere gestionale dei dirigenti. Il documento governativo dichiara di voler combattere le disuguaglianze e superare lo storico divario Nord-Sud, ma non è che la riedizione della Buona Scuola renziana, di cui ripropone i punti centrali, insieme con quelli dei più recenti documenti programmatici dell’Associazione Nazionale Presidi e della Fondazione Agnelli. La proposta del governo drena quote di finanziamento per moltiplicare a dismisura improduttive e costose funzioni burocratiche seguendo con continuità la linea dei governi di centro-destra e centro sinistra che si sono succeduti negli ultimi 15 anni. Il PNRR dovrebbe invece disegnare un risanamento e una riqualificazione senza precedenti della nostra infrastruttura scolastica materiale, a partire dai territori più disagiati del Sud, fino alle periferie delle città metropolitane del Centro Nord, seguendo la  mappa degli indicatori economico- sociali ormai consolidata e ben nota alla comunità scientifica.

Presentiamo di seguito una analisi relativa al capitolo istruzione (primaria e secondaria) della bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Questa analisi istruttoria è servita alla redazione del testo della “Audizione in forma scritta” richiesto dalla VII Commissione della Camera dei deputati (Cultura, istruzione, ricerca, editoria, sport) all‘Associazione Roars. Pubblicheremo nei prossimi giorni il documento inviato alla commissione il 29/01/2021 che copre anche il capitolo università e ricerca.


Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (riprodotto in calce) richiama l’istruzione, associata alla ricerca, come missione strategica per quel processo di trasformazione che definisce “svolta italiana”, decisiva per attuare una discontinuità sui temi dello sviluppo sostenibile, della digitalizzazione e l’innovazione, della riduzione dei divari e delle disuguaglianze.

Si dedica all’istruzione primaria e secondaria la prima delle due componenti che definiscono le linee di azione della Missione 4 (pag. 114), denominata M4C1, con un investimento previsto di 16,72 miliardi complessivi, suddivisi in 3 aree per un totale di 10 voci. L’ultima delle tre aree (Istruzione professionalizzante e ITS, 2,25 mld) così come le voci “alloggi per studenti” e “borse di studio e accesso gratuito all’università” dell’area 1 o la voce “didattica e competenze universitarie avanzate” dell’area 2 non intervengono per via diretta sull’istruzione primaria e secondaria, quanto piuttosto sulla transizione scuola-università.

In considerazione di ciò, il totale dei finanziamenti strettamente destinati dal RP all’istruzione primaria e secondaria risulta di 11.62 miliardi. Ricordiamo che la riforma Gelmini ha tagliato quasi 8 miliardi dal budget di questo settore del Miur, per cui dal 2009 ad oggi sono stati sottratti all’istruzione primaria e secondaria quasi 100 miliardi.

 

 

La premessa del documento: i dati e il divario dei risultati di apprendimento

Punto di partenza del piano, in tema di istruzione, è l’assunzione del nesso tra “insoddisfacente crescita” e “una incompleta transizione verso un’economia basata sulla conoscenza [resa] sempre più evidente dalle statistiche che riguardano i risultati del Paese nel campo dell’istruzione [..]. Tali statistiche evidenziano significativi ritardi nei confronti dei principali partner europei.” (p.12)

Tali ritardi sono documentati (p.116) dai dati presentati in Fig. II.4.1, relativi ai test PISA OCSE 2018, secondo cui “i 15 enni italiani si collocano al di sotto della media OCSE in lettura, matematica e scienze, con ampie differenze territoriali”.

Commento:

Delle due immagini riportate in Fig. II.4.1, la prima è tratta dal country note OECD (pag. 4), mentre la seconda sembra essere una rielaborazione degli stessi dati su base regionale, descritti  nella sintesi italiana dell’INVALSI.

Nella prima è ben evidente la tendenza dei punteggi acquisiti (linea nera) per entrambe le competenze testate: invariata per la lettura dal 2000 al 2018; in crescita e sostanzialmente stabile (dal 2009) in matematica.

I punteggi relativi al 2018 sono riportati analiticamente nel Volume PISA Results 2018 (pag. 18) per tutti i paesi sottoposti all’indagine.

In sintesi, per l’Italia:

Per l’interpretazione dei punteggi PISA e delle loro differenze, come noto, nel rapporto si ricorda che:

i) un punto di differenza sulla scala dei punteggi PISA corrisponde ad un effect size statistico di 0.01 (pag. 43).

ii) piccole differenze non possono essere espresse in termini di competenze o conoscenze (pag. 44).

Inoltre, si evidenzia (pag.  90) che:

le percentuali di studenti italiani che si collocano al cosiddettolivello 2” dei test PISA, in cui,

per la lettura: “students begin to demonstrate the capacity to use their reading skills to acquire knowledge and solve a wide range of practical problems” (pag. 89)

e per la matematica:  “students begin to demonstrate the ability and initiative to use mathematics in simple real-life situations” (pag. 105),

pari al 77% e 76% del campione testato, corrispondono alla media OCSE.

Correttamente, nel documento governativo si riporta l’attenzione sulla marcata differenziazione territoriale registrata nel paese, come si rileva puntualmente fin dalla prima indagine dei test PISA,  anno 2000.

Osserviamo quindi che i dati a supporto del nesso assunto in premessa – i ritardi significativi dei risultati italiani nelle indagini statistiche internazionali come causa strutturale del destino economico del Paese- sono letti in maniera generica oltre che parziale.

Senza esprimere alcun giudizio di valore o scientifico sui dati di comparazione degli apprendimenti, è evidente che il problema principale posto all’attenzione non sia rappresentato né dai valori medi di quei risultati, né dal loro presunto declino nell’arco dei 20 anni di indagini internazionali, bensì dal divario periodicamente registrato tra le varie macro aree del paese, correlato in maniera robusta dalle stesse indagini PISA 2018  (come da tutte le precedenti o dalla letteratura scientifica di riferimento) ad altri indicatori sociali, economici e di sviluppo territoriale.

In coerenza con tale lettura, ci attenderemmo, anche limitandoci al solo capitolo istruzione primaria e secondaria (e tralasciando i capitoli necessariamente ad esso correlati: infrastrutture, innovazione del sistema produttivo, riqualificazione edilizia, terzo settore etc.)investimenti focalizzati alla riduzione di tale divario, dunque geograficamente mirati e differenziati. Ciò non pare emergere dal prospetto di ripartizione pubblicato, che oltre a non chiarire la distribuzione geografica delle singole voci, destina quelle denominate “riduzione del divario territoriale” e “piano asili nido” – come noto strutture carenti quando non assenti nelle regioni meridionali – solo il 30% delle risorse complessive.

 

Le tre linee d’azione del RP

Il documento individua tre linee d’azione: i) accesso all’istruzione e divari territoriali; ii) competenze STEM e multilinguismo; iii) istruzione professionalizzante, articolando al loro interno un insieme di interventi e riforme:

1) Riforma del sistema di reclutamento.

2) Formazione in servizio obbligatoria per il personale: con sistema di crediti e obbligo di frequenza, correlato allo sviluppo professionale della carriera.

3) Riforma dei programmi scolastici: con introduzione nelle discipline curricolari di metodologie e contenuti che rafforzino le” competenze STEM (Science, Technology, Engineering e Math), la digitalizzazione e l’innovazione” dall’infanzia in poi, con “la collaborazione del settore produttivo”.

4) Riforma degli istituti tecnici e professionali per “adeguare i programmi alle esigenze del mondo della produzione e della situazione socio-economica dei singoli territori”;

5) Riforma del sistema di orientamento, con introduzione di moduli obbligatori nelle scuole secondarie di secondo grado.

Commento:

a) Una sostanziale contraddizione e una riedizione delle politiche precedenti

Le tre linee d’azione previste dal RP poggiano su un pacchetto di riforme che ridisegnano la fisionomia del nostro sistema di istruzione, sia nei contenuti (programmi scolastici) che nell’organizzazione e gestione (profili contrattuali dei lavoratori).

Rileviamo innanzitutto la contraddizione tra la natura programmatica del documento – destinare investimenti per la ripresa economica del Paese in una fase di crisi senza precedenti – e l’individuazione di soluzioni di carattere politico.

Osserviamo poi la riproposizione piuttosto generica dei temi del  “tempo pieno” e della “riforma del sistema di reclutamento”, da valutare solo una volta noti i dettagli. Tuttavia, destano perplessità alcune espressioni contenute nel testo (moduli formativi organizzati per competenze, integrazione nelle discipline curricolari, adozione di curricola digitali) che lasciano intendere un’azione invasiva, sul piano metodologico, delle diverse discipline curricolari, proponendo un unico paradigma pedagogico che contrasta sia con la letteratura scientifica a disposizione, sia con i principi contenuti nell’articolo 33 della Costituzione

Quanto al fenomeno macroscopico ed endemico della precarizzazione dei lavoratori della scuola, nulla viene detto (sorprendentemente) a riguardo, nel RP.

In sintesi, notiamo che gli interventi previsti ripropongono la stessa agenda politica dei governi precedenti.  In particolare, ricalcano nello sfondo valoriale e nei contenuti le soluzioni individuate dai documenti programmatici emanati durante il Governo Renzi: La Buona Scuola: facciamo crescere il paese, il documento di  Sviluppo Professionale, Qualità e formazione in Servizio, il Piano Nazionale Scuola Digitale, Il Piano di Formazione degli Docenti.

Tali documenti hanno istituito azioni, innovazioni normative e prassi che si sono concretizzati più o meno compiutamente, a seguito dell’emanazione della legge di riforma del sistema di istruzione e formazione, L.107/2015 e suoi successivi  decreti attuativi (2017). Sulla loro realizzazione, che può dirsi ancora in corso d’opera, inoltre, per ovvie ragioni temporali, non è stato possibile avanzare alcuna valutazione di carattere politico o empirico-pedagogico.

Le riforme previste, lette anche alla luce del recente Atto di indirizzo ministeriale, concretizzano un nuovo orizzonte  ordinamentale, giuridico e contrattuale, che recepisce, nei punti salienti, le indicazioni e soluzioni ideate dall’Associazione Nazionale Presidi  (in particolare documento della primavera scorsa)  o recentemente rilanciate dalla Fondazione Agnelli, le cui proposte non possono rivendicare alcuna autorevolezza e tantomeno scientificità, rispetto all’ampio dibattito presente nel Paese e nel mondo accademico.

b) Interventi di tipo contrattuale e non strutturale

Riteniamo assolutamente inadeguate allo scopo dichiarato – “colmare il deficit di competenze che limita il potenziale di crescita del paese” – le azioni di riforma di ordine direttamente o indirettamente contrattuale previste nella M4C1 del RP, che si produrrebbero attraverso una polverizzazione di sotto-interventi trasversali alle diverse voci documentate nel programma di investimenti.

Esse definiscono:

– un nuovo profilo professionale e un nuovo status giuridico dei docenti, configurandone una riorganizzazione in senso gerarchico, attraverso:

i) differenziazione di carriera, introduzione del middle management, con funzioni principalmente organizzative,

ii) introduzione di standard di competenze e obiettivi professionali agganciati ad incentivi salariali e moduli di formazione obbligatoria non adeguatamente retribuita (meno di 0.42 mld per oltre 1 milione di lavoratori, ovvero meno di 40 euro a testa),

iii) limitazioni sulla mobilità e permanenza territoriale, in funzione della criticità delle aree geografiche,

iv) introduzione di meccanismi premiali delle scuole in funzione “di parametri più critici (inclusi gli apprendimenti certificati dai test INVALSI)”;

– un nuovo profilo del dirigente scolastico, sempre più schiacciato su funzioni di tipo amministrativo-manageriale;

– nuovi assetti tra gli organi rappresentativi delle comunità scolastiche, con presumibili interventi sulla legislazione che regola i processi di partecipazione e gli equilibri degli organi collegiali (Decreti delegati).

Riteniamo l’affermazione

“si deve quindi costruire una carriera docente dando l’opportunità ai docenti più dinamici e capaci di assumere responsabilità all’interno della scuola, accompagnata alla possibilità di crescere in ruolo”

una dichiarazione d’intenti politica, più che un investimento, dato che non ravvisiamo alcun nesso causale tra il rafforzamento dell’efficacia dei percorsi di apprendimento e l’istituzione di una carriera professionale, con premi e incentivi per gli insegnanti e i dirigenti scolastici. Piuttosto, riconosciamo in tali linee la volontà di intervenire deliberatamente sull’ assetto di un’istituzione pubblica- la scuola- modificandolo definitivamente in senso manageriale e marginalizzando definitivamente l’aspetto culturale della scuola, che invece dovrebbe tornare ad essere centrale.

Anche la successiva affermazione suscita perplessità riguardo a una possibile effettiva efficacia:

i migliori docenti del paese potranno dedicare alcuni anni a inizio o fine carriera all’insegnamento in scuole svantaggiate. Si incoraggerà la mobilità dei docenti (e la loro permanenza) presso scuole svantaggiate o scuole con particolari criticità socio-economiche; sarà premiato il miglioramento delle scuole rispetto ai parametri più critici (inclusi gli apprendimenti certificati dai test INVALSI)”.

Un drammatico problema di diseguale opportunità fra i territori del paese viene affrontato con risorse finanziarie modeste (come richiamato sopra), e delegato prioritariamente all’azione dei docenti “migliori”, che da soli avrebbero scarse possibilità di agire con efficacia in mancanza di un sostegno effettivo sul piano strutturale e infrastrutturale, mirato proprio a quelle specifiche situazioni. La problematica questione di come poi si decida quali siano i docenti “migliori” risente della criticità di una struttura gerarchica tutta fondata su criteri di management e non didattici (salvo l’adesione ad un discutibile  unico paradigma di cui si è detto). L’introduzione di un quadro organizzativo interno alle scuole, così come il ruolo di valutatore in ultima istanza dell’INVALSI, sembrano costituire le vere finalità di tale linea di intervento, che, anche sotto questo aspetto si rivela in piena sintonia con quanto proposto negli anni precedenti. In particolare, con le tesi recentemente ribadite dall’economista Daniele Checchi, “Ripartire dagli insegnanti: la ricetta per la scuola del Sud” (23.07.19)  e dell’ex Presidente dell’INPS Tito Boeri: “Un’altra scuola per il Sud” (10.12.19) e “Come ridare smalto alla scuola senza qualità del Sud” (17.1.20).

In conclusione, le proposte di riforma si fondano su un principio riduzionista e a basso costo: quello della messa in competizione dei lavoratori sulla base di criteri estrinseci ed apparentemente tecnici, peraltro non ben specificati: quale organo decisionale distribuirebbe gli incentivi salariali? Di quale entità? Chi stabilirebbe gli standard professionali dei docenti e dei dirigenti? In base a quali indicatori o parametri?

c) Superamento skill mismatch e ulteriore intervento sugli istituti tecnico-professionali

Anche la proposta di intervenire sullo “skill mismatch tra educazione e mondo del lavoro” potenziando e correlando ancor più strettamente l’offerta formativa alla “vocazione produttiva del territorio di riferimento” è una riedizione delle proposte renziane del 2014  e del più recente (2017) rapporto OCSE “Strategia per le competenze”. La relazione scuola -lavoro che emerge dal documento ripropone la funzionalizzazione del sistema di istruzione alle necessità del mondo produttivo. Ciò è testimoniato anche dall’enfasi con cui si intendono promuovere riforme di tipo curricolare sulle discipline STEM a partire dalla scuola dell’infanzia e primaria.

Particolarmente inappropriato ci pare inoltre l’ulteriore intervento di riforma previsto sugli istituti tecnico-professionali. Questi ultimi, in particolare, appena riformati sulla base del decreto attuativo 61 del 2017,  subirebbero ulteriori modifiche sia curricolari che organizzative, senza nemmeno aver concluso un ciclo quinquennale dall’ultimo intervento normativo.

Proposte di modifica

Sintetizzando, a nostro giudizio, il Piano nazionale, settore scuola, si presenta come un programma mirato all’attuazione di una riforma di carattere politico, piuttosto che un coerente e mirato intervento di risanamento e potenziamento del sistema di istruzione, già indebolito da politiche di restrizione di spesa ormai decennali. Ricordiamo infatti che un investimento complessivo e strutturale dell’ordine 18 miliardi (FCL-CGIL, 2020) consentirebbe al nostro paese soltanto di recuperare quel punto percentuale di PIL tale da riportare l’Italia nella media europea per spesa pubblica per l’istruzione.

L’occasione dei finanziamenti europei attualmente disponibili, dunque, più che ad implementare riforme disegnate da lungo corso, deve essere indirizzato al recupero dei divari interni al paese. Tali divari, pur ben evidenziati e oggetto di attenzione in più punti dal documento governativo, non appaiono poi adeguatamente individuati come destinatari di un piano di investimenti mirato.

Anziché indugiare su riforme di tipo organizzativo-didattico-gestionale, che drenano quote di finanziamento e moltiplicano a dismisura improduttive e costose funzioni burocratiche riproponendo meccanismi di un discorso ormai sclerotizzato e mai seriamente sottoposto ad analisi, bilancio o dibattito ( autonomia di tipo manageriale, incentivi/premialità, differenziazione salariale, a partire da una base tra le più basse d’Europa, tutoraggio da parte di attori privati, etc), c’è oggi l’occasione di disegnare un risanamento e una riqualificazione senza precedenti della nostra infrastruttura scolastica materiale, a partire dai territori più disagiati del sud, fino alle periferie delle città metropolitane del centro nord, seguendo la  mappa degli indicatori economico- sociali ormai consolidata e ben nota alla comunità scientifica.

A tal fine, riteniamo indispensabile focalizzare gli investimenti in istruzione su pochi macro-temi, partendo prioritariamente dalle aree svantaggiate del paese, per poi procedere fino a coprire tutto il territorio del Paese:

  • Investimento in personale docente e di supporto al lavoro scolastico nelle aree svantaggiate che consenta una significativa riduzione del numero di studenti per classe. Si propone di intervenire, in prima istanza, sulla scorta di quanto previsto in Francia nel 2017, attraverso la misura di sdoppiamento delle classi del ciclo di istruzione primaria nelle zone di “istruzione prioritaria”. L’ impatto di tale misura è già stato valutato positivamente (T. Piketty, M. Valdenaire 2006; T. Piketty, 2019).

Tale misura, in prospettiva dovrebbe mirare ad una riduzione generalizzata del numero di studenti per classe, consentendo una didattica per compresenze realmente ed efficacemente più inclusiva e personalizzata, oltre che laboratoriale.

  • A partire da una ricognizione degli eventuali fondi già esistenti, stanziati o spesi nel tempo, incrementare gli investimenti nella manutenzione, ammodernamento o ricostruzione edilizia degli edifici scolastici esistenti e delle aree/pertinenze ad essi annesse, riqualificando dal punto di vista del risparmio energetico il patrimonio immobiliare scolastico vetusto, progettando o riqualificando aree verdi, biblioteche, palestre, mense e spazi ricreativi, architettonicamente accessibili e sostenibili.  Ciò consentirebbe di procedere parallelamente lungo il percorso di riqualificazione energetica, dell’inclusione sociale e della cittadinanza attiva, temi centrali nell’agenda europea.

 

Di seguito, la bozza oggetto del commento.


Piano nazionale di ripresa e resilienza. Proposta

 

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La “Buona Scuola” del Recovery Plan ultima modifica: 2021-02-03T21:36:48+01:00 da
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