di Alberto Irone L’Huffington, 20.4.2015
Qualche giorno fa un amico siciliano mi spiegava come negli ultimi dieci anni il tasso di dispersione scolastica della sua regione non si sia abbassato, nonostante le scuole abbiano, sulla carta, grazie “all’autonomia scolastica” molti strumenti a disposizione per diversificare le materie di studio, aumentare gli orari di apertura e chiusura, costruire progetti. Quella percentuale, che identifica con due cifre studenti in carne e ossa, famiglie sempre più povere, condizioni di vita difficili e molto spesso inascoltate, non è migliorata, ma peggiorata sensibilmente perché la crisi economica ha destrutturato dove si era provato a costruire con fatica, ha allargato e reso sempre più largo il gap tra chi ha potuto permettersi servizi di qualità e chi non ha avuto la stessa possibilità, aumentato le disuguaglianze.
Oggi, nel 2015, in Italia, uno studente di Vibo Valentia non ha la stessa possibilità d’accesso all’istruzione di un proprio coetaneo di Torino.
La Buona Scuola, inizialmente, si proponeva di fare un’operazione semplice ma fondamentale: ricostruire un’attenzione statale verso i temi della pubblica istruzione investendo risorse e allargando un dibattito da estendere a tutto il paese, togliendolo dalle mani della politica e della burocrazia ministeriale. Ci siamo mobilitati, portando nelle piazze autunnali temi come il diritto allo studio, l’attenzione verso nuovi bisogni degli studenti, la riforma dei cicli, la fine della didattica frontale, l’alternanza scuola-lavoro di qualità per tutti, l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 18 anni.
Oggi nel 2015, la Buona Scuola discute di un ritorno al passato: come può essere considerata un’innovazione il potenziamento dei poteri nelle mani dei presidi e il superamento della collegialità di tutte le componenti della scuola? Come si può definire positiva una scuola “nuova” in cui si delega ad una persona il potere di decidere da solo sui destini di studenti e insegnanti?
La democrazia decisionista – in cui è necessario decidere tutto e subito ma non importa mai cosa – non è pensabile in una comunità che per funzionare veramente deve avere prima di tutto il tempo e poi i luoghi dove poter esercitare il diritto all’apprendimento che è sia personale ma soprattutto collettivo. La rappresentanza studentesca è prima di tutto l’esercizio di un diritto inalienabile, ma nella scuola è anche un metodo per esercitare la democrazia, imparare sul campo a rispettare le sensibilità di tutti, responsabilizzarsi nell’esercitarla. Come può essere considerata Buona una scuola che riduce la rappresentanza e non considera più fondamentale invece coltivarla e incentivarla?
Come può essere considerata Buona una scuola in cui non si investe sul diritto allo studio e si mette veramente al centro la discussione sulle disuguaglianze come diritti negati da dare a tutti, a prescindere dalle singole condizioni economiche? Come può essere considerata Buona una Scuola che non affronta il diritto alla creatività degli studenti e il diritto a crescere in comunità in cui l’accesso alla conoscenza è sempre più diretto ma mai filtrato, in cui gli adolescenti da realisti sono diventati spesso sempre più infelici?
La Buona Scuola non parla di nulla di tutto questo: parla di termini che puzzano di vecchio e che non hanno niente a che vedere con gli studenti e i loro bisogni nel 2015; parla di sgravi fiscali per le rette delle scuole paritarie; parla di persone che potranno tutto e persone che non potranno nulla, di un diritto allo studio senza risorse, di una dequalificazione dell’istruzione professionale.
Per questi motivi scenderemo ancora in piazza il 5 maggio, questa volta con i nostri insegnanti e – perché no? – anche con le nostre famiglie: siamo affamati di futuro e di cambiamento, non di false aspettative, slogan vuoti e politiche che puzzano di naftalina e mai di realtà.
La Buona Scuola è vecchia. Noi siamo affamati di futuro ultima modifica: 2015-04-20T17:41:29+02:00 da