Il Corriere della sera, ed. di Brescia, 26.9.2022.
Mentre con le vecchie interrogazioni a sorpresa gli alunni dovevano studiare giorno per giorno, adesso per cercare di andare incontro agli alunni si fanno le interrogazioni programmate che in realtà sono solo la brutta copia di quelle vecchie e funzionano anche meno.
Uno degli ultimi trend della scuola italiana è la sempre crescente pratica della cosiddetta interrogazione programmata, che peraltro è la spia luminosa della scuola «affettuosa» propagandata dal Ministro uscente Bianchi. Come sempre tale pratica scolastica va letta e interpretata all’interno dello sviluppo e del mutamento della società italiana, anzi del costume comune. I quarantenni e cinquantenni di oggi ricordano il rito collettivo del professore o della professoressa che seduti dalla cattedra osservavano il registro cartaceo e con la penna in mano, scettro di un potere e di un’autorità ormai quasi perduta, facendo su e giù nell’elenco alfabetico degli alunni, cercavano il nome della vittima sacrificale da interrogare: chi sarebbe stato il fortunato? Vi era nell’aria un assordante silenzio di rulli di tamburi e tutti noi ragazzini, specialmente al biennio, eravamo col cuore in gola. Quando non venivamo «nominati», un po’ archetipo del cerimoniale nazional-popolare ereditato inconsciamente ne «Il Grande Fratello» televisivo, chi non ha tirato un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo? E si continuava a studiare per essere sempre pronti, giorno per giorno, quasi facendo nostro il motto evangelico: Estote parati!
Ora l’interrogazione programmata ha il vantaggio indubbio di non «agitare» più le menti di alunne e alunni, che possono così anche organizzare il tempo al di fuori della scuola, scandito da numerose attività . L’interrogazione programmata è anche l’evidenza tangibile della «rivoluzione» che la scuola sta attraversando, più o meno consapevolmente, nella società liquida, nella repentina trasformazione tecnologica, nel mondo sempre più villaggio globale. Perché? L’interrogazione orale tradizionale che noi tutti conosciamo è la modalità più “veloce” a disposizione del docente per accertare le conoscenze di un discente ed è emanazione scontata di un approccio nozionistico-trasmissivo, perpetrato secondo un modello condiviso da generazioni: spiegazione frontale-esercitazione in classe/esercizio come compito a casa-interrogazione orale/verifica scritta. Il criterio fondamentale della docimologia spicciola del corpo docente è perlopiù basato sul criterio seguente: se sai, come sai, quanto sai. Il che è ovviamente lontano anni luce dalle indicazioni ministeriali, in cui, ad esempio, «la valutazione ha per oggetto il processo formativo e i risultati di apprendimento delle alunne e degli alunni; ha finalità formativa ed educativa e concorre al miglioramento degli apprendimenti e al successo formativo degli stessi; documenta lo sviluppo dell’identità personale e promuove l’autovalutazione di ciascuno in relazione alle acquisizioni di conoscenze, abilità e competenze». Grazie a questa dose di pedagogismo, si capisce perché si sta sempre di più creando di fatto uno iato tra scuola e società.
In questo quadro, che è assai più complesso di quanto si possa immaginare e racchiudere in poche righe, la pratica sempre più invasiva dell’interrogazione programmata è il modo di salvare l’apparenza e di conservare un certo modello di scuola: le nuove generazioni, che sono nativi digitali, e sono sempre più «operosius occupati», per usare un’espressione senecana, sono sempre meno avvezze al carico cognitivo dello studio «matto e disperatissimo» cui noi «vecchi» (si generalizza, per eccesso!) eravamo obbligatoriamente assuefatti. Allora, se da una parte gli esperti dell’istruzione e della formazione parlano di nuove metodologie atte a sopprimere l’interrogazione tradizionale (citiamo ad esempio i «compiti di realtà»), mentre il Ministero ha avviato da anni la retorica delle competenze al posto delle mere conoscenze, in classe succede altro: si perpetua il vecchio modello ereditato dai nostri professori ma realisticamente adattato ai ragazzi di oggi, sempre più cognitivamente fragili e interessati ad altro diverso dalla civiltà libraria.
L’interrogazione orale è di fatto una foglia di fico. I nostri alunni, infatti, sono «presi nella rete», per parafrasare un brillante saggio di Raffaele Simoni, che già nel lontano 2012 descriveva una rivoluzione fino a poco tempo inavvertita ma inarrestabile che ci sta trasformando per sempre, anzi sta in qualche modo «ri-alfabetizzando» il nostro cervello… Perciò, se le forme di sapere tradizionale si perdono e tramontano, rimane un pallido ricordo la figura archetipica dell’innominato professore di italiano della fortunata serie tv «I ragazzi della 3C». Essendo il più temuto, non esita a interrogare a sorpresa: le sue vittime predilette sono Chicco e Bruno. I nomi degli alunni Sacchi e Lazzaretti, infatti, sono ripetutamente gridati quando i due disturbano o si fanno cogliere distratti dalla spiegazione durante la lezione. Il suo tormentone più famoso è «Sacchi… (sfregolio di dita sul naso corredato di occhialetti): Tre!!!», che però diventa un «due quando l’interrogato è Lazzaretti. Mai il mio collega fittizio si sarebbe potuto immaginare di fare le interrogazioni programmate in auge oggi nelle nostre aule.
Marco Ricucci è docente di italiano e latino al Liceo scientifico Leonardo di Milano e saggista
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La moda delle interrogazioni programmate: siamo sicuri che aiutino gli studenti? ultima modifica: 2022-09-26T21:04:35+02:00 da