La scuola disattenta al disagio sociale e a quello cognitivo

di Corrado Augias, la Repubblica, 19.12.2022.

I ragazzi non reggono più il peso delle materie di studio, tutte le ore una dietro l’altra.
Gilda Venezia

La Repubblica di ieri dava, com’era doveroso, grande spazio alla leggendaria partita tra Argentina e Francia, alle modifiche apportate alla manovra finanziaria. C’era però, nelle pagine interne, un’inchiesta di Ilaria Venturi con notizie dalla scuola a mio parere più importanti e inquietanti della stessa manovra.
Il primo dato è che, nel giugno scorso, i ragazzi bocciati per “troppe assenze” sono stati 74 mila, tanti da riempire un grande stadio di calcio, un numero che rappresenta un fallimento non solo per la scuola ma per l’intero paese, tanto più che le punte del fenomeno si sono avute in regioni come Calabria, Sicilia, Sardegna già molto sofferenti. Ci sono zone di Napoli dove le assenze prolungate senza giustificazione sono cresciute fino al 40 per cento. Le cause di un fenomeno che mette a rischio il nostro futuro più ancora dell’immenso debito pubblico o di una possibile cattiva gestione delle risorse, sono principalmente due. Da una parte c’è un diffuso disagio sociale: scuole fatiscenti, famiglie disinteressate, perdita di contatto dei giovani con l’istituto scuola a causa della pandemia.
Dall’altra però è emerso un fenomeno nuovo riassunto sotto la denominazione “sovraccarico cognitivo”. In parole povere vuol dire che un certo numero (significativo) di ragazzi, non si sente più in grado di affrontare la rotazione di lezioni come si sono sempre fatte: prima ora greco, seconda geometria, terza italiano e via dicendo. Il peso di insegnamenti diversi è diventato mentalmente ingestibile. C’è ansia da prestazione, si deve affrontare una fatica che a molti pare diventata insostenibile. D’altra parte, si è fatto notare, alleggerire i programmi, renderli più “facili” significherebbe aggravare il danno, cioè far diventare la scuola una specie di passatempo diplomando alla fine dei corsi ragazzi che non hanno imparato quasi nulla.

Sul disagio sociale si può pensare d’intervenire, ammesso che ci siano sufficienti fondi, attenzione, intraprendenza. Ma sul disagio cognitivo che cosa è possibile fare? Prima ancora, da che cosa è motivato? Ricordo, per la cronaca, che fino a non molti anni fa all’esame di maturità dei licei si portava il programma di un triennio su nove materie, che i voti alti e altissimi, che ora in alcune regioni sono distribuiti a pioggia, erano impensabili, che severo era il giudizio sulle versioni da e verso l’italiano da lingue vive o morte. Escludo che gli allievi d’un tempo fossero più dotati di quelli attuali.
Ma se non sono cambiati, nella media, gli allievi è chiaro che dev’essere cambiato il clima intorno a loro. Infatti, è questo il dato diventato innegabile. Fino a non molti decenni fa resisteva una certa contiguità logica e culturale tra ciò che si studiava a scuola — soprattutto per le materie umanistiche — e le nozioni, gli interessi, i riferimenti che bene o male circolavano. Uno dei professori sentiti da Repubblica — Carlo Braga, opera in Emilia-Romagna — ha ammesso: «la fragilità diffusa non è dovuta solo al Covid, ma a un cambiamento culturale rispetto all’immagine di sé in adolescenza».
L’ipotesi attendibile è che anche questo fenomeno derivi dalla rivoluzione culturale in atto e dai nuovi strumenti di comunicazione disponibili su larga scala. Troppo numerosi e troppo allettanti sono diventati i richiami che premono sui giovani per pensare che possano ancora appassionarsi alla sfida tra Ettore e Achille o alle vicende che portarono alla seconda guerra d’Indipendenza. Non finisce qui, del resto.
Dopo l’abbandono e dopo il “sovraccarico cognitivo”, l’altro fenomeno nuovo e inquietante è rappresentato da quelli che “sono presenti in classe ma è come se non ci fossero”. È impressionante, ha detto uno degli insegnanti, vederli durante la ricreazione: «spalle appoggiate al muro nel cortile, tutti con gli occhi fissi al cellulare».

Si può essere d’accordo con il ministro Valditara quando annuncia di voler bandire i telefoni cellulari in classe durante le lezioni. È così ovvio che il telefono e la lezione sono incompatibili che non ci dovrebbe essere nemmeno bisogno di dirlo. La dittatura del telefonino però resta, il suo richiamo è molto più forte di quello delle sirene che in epoche remote irretivano i marinai. La duttilità dello strumento è tale da renderlo uno strumento espressivo e di comunicazione praticamente irresistibile. Il telefonino intelligente è parte importante della rivoluzione in atto che segna il passaggio dalla cultura della carta a quella della Rete — né c’è modo di tornare indietro. Nella traversata si salveranno quelli che per ragioni di famiglia, di censo o perché dotati di particolare intelligenza riusciranno a non essere sommersi dalla novità.
Ma è degli altri che dovremmo preoccuparci, dei più deboli, dei meno fortunati. Un problema che investe migliaia di giovani, il loro futuro, il ruolo che potranno avere da adulti. Ma investe, a parte gli individui, anche la società italiana nel suo insieme perché dispersione scolastica vuol dire anche perdita di quei talenti di cui avremo sempre più bisogno.

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