La scuola uccisa dalla burocrazia, ecco perché noi professori non capiamo l’ansia dei ragazzi

di Viola Ardone, la Repubblica, 1.5.2024.

l racconto. Dobbiamo produrre risultati, valutare, compilare modelli. Non c’è più tempo per un vero dialogo.

Gilda Venezia

Dobbiamo finire il programma. Dobbiamo terminare le interrogazioni. Dobbiamo elaborare le medie. Dobbiamo calcolare i punti di credito e deliberare i debiti, come se la fine dell’anno scolastico fosse una dichiarazione dei redditi, invece che il compimento di un percorso di apprendimento.

I primi a essere sopraffatti dall’ansia siamo noi professori, assillati dalle scadenze, dalle formalità, da una burocrazia sempre più autocratica e autoreferenziale. Ci viene chiesto di “produrre” risultati, come se fossimo operai alla catena di montaggio del sapere, di annotare sul registro elettronico ogni nostra mossa, di giustificare ogni iniziativa. Progettare, valutare, orientare, rendicontare, relazionare, stilare documenti, compilare modelli. E dove lo troviamo più il tempo per insegnare? Chi ha scelto di dedicare la vita alla scuola coltivava probabilmente il sogno di far parte di una comunità più grande, di essere meno solo, di contribuire alla realizzazione dell’articolo 3 e dell’articolo 34 della Costituzione. Non ambiva a essere l’ingranaggio malpagato di una macchina di cui non si riesce a percepire più la forma nella sua interezza, che non si sa dove sia diretta né da chi sia guidata.

La nostra frustrazione si riflette nella loro

Se i ragazzi sono sempre più affetti da una forma di “ansia totale”, in parte quell’ansia è lo specchio della nostra. Succede nelle relazioni amorose, in famiglia, nelle amicizie: una sorta di “rimbalzo emotivo” tra persone che condividono spazi e tempi nel vissuto quotidiano. Così spesso la nostra frustrazione di insegnanti si riflette nella loro, e viceversa. Il nostro sospetto di essere inefficaci e disarmati e soli tra le mura della scuola si riverbera nella loro paura del fallimento. La nostra fatica a relazionarci a volte con i colleghi e con la dirigenza è parallela alla loro difficoltà nell’intavolare rapporti con i compagni. Con la differenza che gli alunni sono in una fase assai delicata della vita, in cui le insicurezze e le pressioni sono percepite in maniera amplificata e possono avere conseguenze più drammatiche che negli adulti.

La scuola oggi bisogna meritarsela

Quando ero dietro i banchi, esisteva il ministero della Pubblica Istruzione. Oggi invece si chiama ministero dell’Istruzione e del Merito, che già nel nome rivela l’insidia: la scuola bisogna meritarla, anche quella dell’obbligo, a partire dalla primaria. E noi insegnanti ci troviamo a vestire i panni di allenatori il cui compito è quello di alzare sempre di più l’asticella della prestazione (non necessariamente quella del sapere), per migliorare gli standard dell’Istituto e gli obiettivi fissati nel Piano di miglioramento.

Io non ho scelto di insegnare per questo. Il giorno in cui sono entrata in classe da docente mi è venuta in mente la scena del Giovane Holden in cui il ragazzo, che è stato cacciato per l’ennesima volta da scuola, va a salutare il suo anziano insegnante di Storia. Holden, studente fallimentare e tendenzialmente sociopatico, ultimo anello nella catena alimentare della giungla scolastica, confessa al professor Spencer che è dispiaciuto di non aver studiato la sua materia, è lì per spiegarsi ma anche per ricevere una parola. L’insegnante, etimologicamente, è colui che lascia un segno. Però quel segno non arriva, il docente accoglie Holden seduto in poltrona con un plaid scozzese sulle ginocchia e gli rifila luoghi comuni sull’impegno, sullo studio, sui risultati. “La vita è una partita che si gioca secondo le regole, figliolo”. Non lo vede, non lo ascolta, non comprende il suo bisogno di riconoscimento. Holden si pente di averlo cercato e prima di svignarsela con una scusa fa in tempo a rispondere: “La vita è una partita se stai dalla parte dove ci sono i grossi calibri, ma se stai dall’altra parte, dove di grossi calibri non ce n’è nemmeno mezzo, allora che accidente di partita è?”.

Non sarò mai il professor Spencer

Ecco, quando ho varcato per la prima volta un’aula da adulta mi sono ripromessa che non sarei mai diventata come quel vecchio insegnante che commisura la propria abilità sui risultati dei suoi alunni. Non è l’alunno bravo che fa il bravo professore. È l’alunno fallimentare, quello dell’ultimo banco, quello che sbaglia e sbaglia e alla fine impara che a sbagliare non si muore, ma al limite si migliora. “Fallirò meglio”, scriveva Samuel Beckett in Molloy.

Per liberare gli studenti dall’ansia bisognerebbe liberare la scuola, aprirla, farla respirare dalle micragne burocratiche che la soffocano, farla arieggiare, rimettere al centro il dialogo, il confronto. La scuola dovrebbe tornare a essere un luogo di comunità e di incontro invece che la prefigurazione di un sistema aziendale basato su premi di produzione e licenziamenti in tronco.

L’istruzione dell’inclusione costa di più

Certo, la scuola del dialogo e dell’inclusione costa di più in termini umani, professionali e soprattutto economici rispetto alla scuola delle sanzioni disciplinari, dei punti di credito o di debito, o addirittura delle classi differenziate, a cui qualcuno propone di tornare. Ma è una scuola più umana, dove tra chi studia e chi lavora possa essere messo in circolo il sapere e dove il senso di inadeguatezza non si trasformi in ansia.

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La scuola uccisa dalla burocrazia, ecco perché noi professori non capiamo l’ansia dei ragazzi ultima modifica: 2024-05-01T05:44:32+02:00 da

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