di Avvenire, 19.10.2018
,– Diventare insegnanti (senza esser presi in giro) –
Non c’è nulla che possa scoraggiare un giovane il quale voglia intraprendere una data professione più dell’incertezza del percorso per accedervi. E negli ultimi anni non sembra esserci un mestiere la cui strada sia più incerta di quello dell’insegnante. Non tanto per il precariato fatto di supplenze, più o meno lunghe, che da sempre costituisce spesso l’inevitabile gavetta per poi entrare finalmente in ruolo: perché negli ultimi anni, con i pensionamenti che ci sono stati e ci saranno, le cattedre vacanti sono tutt’altro che scarse; la necessità di docenti di sostegno, poi, ha reso disponibili ulteriori posti.
Il problema riguarda invece un aspetto che potrebbe essere molto semplice: l’iter formativo, e burocratico, per diventare insegnanti. Il Governo Gentiloni aveva emanato i decreti attuativi della cosiddetta legge sulla “buona scuola” (107/2015), che tutta buona alla fine non si è rivelata. Tra le altre cose si stabiliva che, per accedere al percorso finalizzato a diventare insegnanti, il “Fit” (formazione iniziale e tirocinio), i laureati nelle diverse materie dovessero avere ottenuto, all’interno del proprio piano di studi, 24 crediti formativi universitari (Cfu), corrispondenti grosso modo a quattro vecchi esami “annuali”, in psicologia, pedagogia, antropologia e didattica disciplinare.
Di per sé era buona l’idea di inserire queste competenze come obbligatorie per andare a svolgere un lavoro, quello dell’insegnante, sempre più complesso e delicato per i tanti risvolti non solo culturali, ma anche psicologici e sociali che esso comporta nella scuola di oggi. Peccato però che quella richiesta avesse valore retroattivo: si applicava, cioè, anche a chi si era già laureato prima dell’entrata in vigore del provvedimento. Così molti laureati (magari anche da diversi anni) interessati all’insegnamento si sono dovuti iscrivere di nuovo all’università per sostenere quegli esami che mancavano loro per poter accedere al concorso. Gli atenei, a loro volta, hanno attivato questi “corsi d’emergenza”, vista la pressante domanda in vista del bando concorsuale dato per imminente. Essendomi trovato a insegnare Didattica dell’italiano in un grande ateneo del Nord, posso testimoniare direttamente la frustrazione, e talora anche la rabbia, di laureati giovani e meno giovani, che magari già insegnavano da anni come supplenti, costretti a tornare sui banchi per ottenere quei crediti mancanti. Mi sono sempre chiesto come mai i sindacati non abbiamo fatto le barricate su una cosa simile.
Ora circolano voci per cui il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti sarebbe intenzionato a modificare la normativa, rendendo i 24 Cfu un requisito “accessorio”, dunque non obbligatorio, per iscriversi al concorso per insegnanti. Se ciò è vero, l’intenzione del ministro è lodevole, poiché si andrebbe a correggere una stortura. Ma bisogna pensare anche a un altro risvolto, diciamo così, di “pace sociale”. Che cosa proverebbero coloro che con molta fatica (e sborsando anche i quattrini delle tasse universitarie) negli ultimi mesi hanno fatto i salti mortali per ottenere quei benedetti 24 Cfu? Avrebbero l’impressione di aver fatto una fatica inutile e – sostanzialmente – di essere stati presi in giro dallo Stato. Che il «Governo del cambiamento» intenda cambiare ciò che non va, sta bene. Ma bisogna osservare che quando si continuano a cambiare le carte in tavola, il gioco alla fine rischia di risultare truccato.
Ci permettiamo perciò di suggerire una soluzione di compromesso, che possa salvare capra e cavoli. Bene togliere il requisito, almeno per chi si sia già laureato, dei 24 crediti aggiuntivi. Chi però li ha sostenuti ha acquisito importanti competenze che ne aumentano la professionalità. È, questo, un fatto innegabile. Dunque che tale requisito, per quanto “accessorio”, venga adeguatamente valorizzato in termini di punteggio, in modo che possa segnare, quanto alla posizione in graduatoria, una differenza che oggettivamente c’è.
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