di Andrea Gavosto e Marco Gioannini, La Voce.info, 15.1.2019
– Per gli studenti disabili certificati è previsto un insegnante di sostegno che collabora con i docenti curricolari. L’obiettivo della piena inclusione non è stato però realizzato. Ecco come ripensare il sistema, nel rispetto dei vincoli di bilancio.
L’integrazione degli studenti con disabilità
L’Italia è stata un paese all’avanguardia nell’integrazione degli studenti con disabilità nella scuola. A differenza di Francia e Germania, che ancora utilizzano classi speciali a seconda della patologia, dal 1975 abbiamo deciso di inserire i ragazzi disabili nelle classi normali, con il condivisibile doppio obiettivo di favorire fin dalla scuola la loro integrazione sociale, evitando rischi di segregazione, e di abituare gli altri studenti a interagire con loro. Con l’evolversi delle politiche di inclusione, il campo di intervento si è esteso nel 2010 anche a chi ha difficoltà di apprendimento (Dsa, ad esempio, i dislessici) e nel 2012 ai cosiddetti bisogni educativi speciali (Bes), studenti che incontrano forme di disagio psicologico, sociale o linguistico, anche temporanee, fra i quali i giovani stranieri.
Per i disabili certificati il modello italiano è fondato sull’insegnante di sostegno, che collabora con i docenti curricolari di materia, per i quali la normativa prevedrebbe la corresponsabilizzazione nel percorso inclusivo. Dsa e Bes non hanno, invece, insegnante di sostegno.
Occorre, però, chiedersi se il modello sia ancora oggi efficace ed economicamente sostenibile. Il recente Rapporto Istat sull’inclusione scolastica, relativo all’anno scolastico 2017-2018, conferma alcune criticità già sollevate in passato (vedi Rapporto Caritas-Fondazione Agnelli-Trellle del 2011). Il rapporto Istat ci dice che l’edilizia scolastica non è adeguata alle esigenze dei disabili: solo il 32 per cento delle scuole italiane non ha barriere di natura fisico-strutturale. L’integrazione fra didattica inclusiva e tecnologie è modesta: il 38 per cento degli allievi disabili non utilizza strumenti informatici o software dedicati; l’emarginazione dalle attività scolastiche è significativa sia a lezione (i disabili alle medie trascorrono in media 4 ore su 30 fuori dell’aula) sia nelle gite, a cui partecipa appena il 60 per cento degli studenti con disabilità. Gravemente insufficiente è la continuità didattica, ancora più importante per chi parta da una situazione di svantaggio: il 41 per cento degli allievi cambia docente di sostegno rispetto all’anno precedente. Forse la criticità più grave è che il 36 per cento degli insegnanti di sostegno non possiede formazione specifica: si tratta infatti di docenti curricolari catapultati a fare un mestiere delicato senza preparazione. In generale, l’obiettivo della piena inclusione degli allievi con disabilità, Dsa o Bes non è stato realizzato: troppo spesso, gli altri docenti lo delegano comunque al collega di sostegno, proseguendo il loro percorso didattico con il resto della classe. In questo modo si creano, di fatto, forme di emarginazione.
Corresponsabilizzare i docenti
Poco efficace, l’inclusione scolastica appare oggi anche poco sostenibile. Lo spesa annuale per il sostegno è immensa: nel 2018 è stata complessivamente di 5 miliardi di euro. Secondo i dati del Miur, dal 2009-2010 al 2017-2018 gli insegnanti di sostegno sono passati da 90 mila a 156 mila, con una crescita continua che nel complesso è stata di oltre il 70 per cento. Nello stesso periodo gli allievi con disabilità, che hanno diritto al sostegno, sono aumentati da 200 mila a 272 mila, ossia del 36 per cento. La legge 244/2007 aveva fissato il limite di due allievi per insegnante di sostegno; la Corte costituzionale nel 2010 aveva però giustamente stabilito che il sostegno è un diritto non limitabile; di conseguenza, il numero di ore – e quindi di docenti – assegnate ai disabili è cresciuto senza sosta, anche a costo di impiegare persone non qualificate. Oggi, il rapporto studenti/docenti è 1,7 a livello nazionale. È difficile che la tendenza all’aumento della spesa possa essere mantenuta a lungo, in un comparto – come quello dell’istruzione – assetato di investimenti in formazione didattica, edilizia e università: inevitabilmente, prima o poi, qualche governo si domanderà se non sia il caso di dirottare risorse altrove, con tagli bruschi alle politiche d’inclusione.
Nascondere la testa sotto la sabbia non sembra una soluzione, a maggior ragione per chi crede che la scelta di civiltà compiuta nel 1975 fosse giusta e vada confermata. Meglio forse ripensare il modello, rendendo i principi di inclusione compatibili con i vincoli del bilancio pubblico.
Come? Una strada possibile è indicata da una sperimentazione svolta nella provincia di Trento da Iprase e Fondazione Agnelli nel 2013-2015, con l’obiettivo di coinvolgere, dopo averli formati, gli insegnanti curricolari nella didattica inclusiva a vantaggio degli studenti con bisogni educativi speciali. La sperimentazione ha riguardato 345 studenti trattati e 295 nel gruppo di controllo: ha messo in luce come la corresponsabilizzazione di tutti i docenti abbia condotto a un miglioramento delle abilità non cognitive e di socializzazione degli studenti svantaggiati e a una loro maggiore integrazione nel gruppo classe, senza che questo determinasse un peggioramento delle abilità cognitive dei loro compagni.
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