di Giovanni Carosotti Rossella Latempa, Roars, 2.7.2021
– Terza parte –
Siamo alla terza ed ultima parte della nostra analisi delle riforme scolastiche previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e dalle nuove Linee programmatiche del Ministero dell’Istruzione. Approfondiremo, qui, il nuovo ruolo che la valutazione centralizzata e standardizzata operata dall’istituto INVALSI sarà destinato ad assolvere. E cioè il ruolo di strumento di regolazione e misurazione di quelli che potremmo definire livelli essenziali di apprendimento di ciascuno studente, attraverso cui si intende trasformare radicalmente l’assetto istituzionale del nostro sistema di istruzione. Da una parte, infatti, il PNRR prevede per l’INVALSI nuovi compiti legati alla formazione e alla carriera professionale dei futuri docenti, anche attraverso la gestione della Scuola di Alta Formazione; dall’altra, le valutazioni standardizzate dei test INVALSI, che la prima bozza del PNRR – Draghi intendeva esplicitamente ”rendere obbligatori”, diventeranno lo standard di apprendimento in campo educativo sulla base del quale stabilire la qualità delle scuole, per poi procedere con interventi specifici per gli istituti risultati inefficaci. Avanziamo allora un’ipotesi: tali interventi, nel solco delle politiche neoliberali attuate da decenni, non consisteranno certo nel dare di più a chi ha di meno, in termini di risorse e infrastrutture materiali, umane o culturali. I quadri di riferimento INVALSI e gli esiti nei test INVALSI diventeranno la cornice e lo standard della Didattica e della Valutazione di stato, in funzione dei quali commissariare o premiare le scuole. Consentiranno di definire quei livelli essenziali di prestazione in materia di istruzione, i LEP, rilevanti per la determinazione dei costi e fabbisogni standardcon cui la politica potrà portare a compimento il processo di federalismo scolastico da tempo auspicato, che rappresenta il cuore della nuova stagione autonomistica, inaugurata paradossalmente proprio nella fase dell’emergenza pandemica e in nome della lotta alle disuguaglianze territoriali. Una stagione che dai patti educativi di comunità ci condurrà dritti alla scuola delle autonomie differenziate.
Siamo alla terza ed ultima parte della nostra analisi delle riforme scolastiche previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e dalle nuove Linee programmatiche del Ministero dell’Istruzione.
[Qui, qui e qui ciò che abbiamo discusso nelle precedenti]
Approfondiremo adesso il nuovo ruolo che la valutazione centralizzata e standardizzata, operata dall’istituto INVALSI, sarà destinato ad assolvere.
Come da tempo denunciamo, si tratta evidentemente di un ruolo di primo piano: ovvero la consegna nelle mani dell’istituto INVALSI del controllo dell’efficacia e della qualità dell’azione delle scuole; e la certificazione di fatto delle credenziali educative nazionali, seppur formalmente ancora affiancate ad un esame di Stato sempre più svuotato di contenuti e significato formativo.
Con ciò intendiamo l’istituzionalizzazione e il rafforzamento di un meccanismo che si è andato progressivamente consolidando e che di fatto attribuisce all’Istituto di valutazione un duplice ruolo:
a) quello di stabilire gli standard di qualità di ciascuna scuola, sulla base dei risultati dei singoli studenti registrati da ciascun istituto, comparabili con benchmark territoriali di vario livello (provinciale, regionale, nazionale);
b) quello di ente certificatore dei livelli di competenza dei singoli studenti, in uscita dal I e II ciclo, da oggi scaricabili individualmenteattraverso un sistema di “credenziali digitali: documenti informatici verificabili con cui descrivere una competenza ed il modo in cui questa è stata verificata per un determinato learner”.
La vera novità del PNRR, confermata dalle Linee programmatiche ministeriali sta nella messa in relazione tra gli esiti dei test INVALSI di ogni singolo studente e il destino dell’istituzione scolastica di provenienza.
Ad oggi leggiamo che si intende prevedere:
“azioni di supporto per i dirigenti scolastici, a cura di tutor esterni e docenti di supporto, mentoring e formazione per almeno il 50% dei docenti, potenziamento del tempo scuola con progettualità mirate, incremento delle ore di docenza e presenza di esperti per almeno 2000 scuole, programmi e iniziative specifiche di mentoring, counseling e orientamento professionale attivo”.
Ciò significa, tradotto in altri termini, interventi “mirati” di tipo didattico – formativo sulle professionalità scolastiche, ritenute responsabili del fallimento (o del successo) del loro lavoro, valutato sulla base degli esiti di test standardizzati.
Pur non avendo sufficienti dettagli per comprendere l’articolazione delle azioni che incideranno sugli istituti dichiarati inefficaci, sappiamo che il Ministro Bianchi ha già previsto un “progetto pilota nel primo semestre 2021 finanziato dal PON scuola con risorse già disponibili”; progetto del quale non siamo riusciti a ricavare informazioni di dettaglio dai siti ufficiali, se non alcuni aspetti, di seguito riportati:
Immaginiamo, tuttavia, che la linea di intervento possa svilupparsi secondo quanto già dichiarato nei primi mesi del 2020, quando l’INVALSI aveva pubblicato un “Documento tecnico relativo all’intervento di riduzione dei divari territoriali”, che avevamo analizzato approfonditamente qui, immediatamente prima della crisi pandemica.
All’epoca, il piano di “ristrutturazione” delle scuole inefficaci nei test INVALSI era limitato alle regioni meridionali, con un possibile ampliamento della platea di istituti nel tempo.
Il PNRR sembra proseguire nella stessa direzione. Riteniamo, infatti, che in tal modo sia da intendere la prospettiva di “generalizzazione” dei test INVALSI (nella prima versione del PNRR, più esplicitamente, l’”obbligatorietà”):
e cioè attraverso una messa in relazione diretta degli esiti delle prove con specifiche azioni sulle professionalità scolastiche coinvolte, come già si prevedeva proprio in quel documento per la riduzione dei divari.
Si tratterebbe insomma di riprendere esattamente la linea politica solo fatalmente interrotta dall’emergenza sanitaria. Il che rende ancor più vuote le dichiarazioni in apertura al documento di Rilancio e Resilienza. Il “contrasto alla povertà educativa”, la “presa in carico delle fragilità”, la “patrimonializzazione dell’esperienza vissuta” nella fase emergenziale, non sono altro che le medesime azioni di quella stessa “normalità” pre-pandemica che si dichiara di voler ribaltare.
Su come saranno strutturati gli interventi sulle scuole inefficaci nei test INVALSI, attualmente è possibile solo fare alcune ipotesi. All’epoca della pubblicazione del Piano di intervento per la riduzione dei divari, lo scenario che di prefigurava era quello di una sorta di commissariamento, articolato su più fronti:
- Standardizzazione di processi e istituzionalizzazione della Didattica di Stato: perché – scrive INVALSI – “ci sono scuole che nonostante le situazioni problematiche sanno come fare per ottenere buoni risultati”; bisogna “sostenere e accompagnare la formazione sulle metodologie e sulle strategie didattiche che si rivelano più efficaci per migliorare i risultati”
- Premi in funzione dei risultati: perché – scrive l’INVALSI – “l’autonomia di cui sono dotate le istituzioni scolastiche non viene sempre adeguatamente esercitata su alcuni aspetti..la continuità e l’incentivazione dei docenti motivati è il valore aggiunto che determina i risultati migliori”.
- Controllo gerarchico su dirigenti e collegi docenti: perché – scrive l’INVALSI “la definizione delle priorità dei RAV (il cui perseguimento rientra tra gli obiettivi di risultato negli incarichi dei Dirigenti Scolastici) deve essere monitorata, controllata e regolata..”
All’INVALSI, oltre al compito di stabilire gli standard nominali di efficacia (i cosiddetti livelli di competenze in matematica, italiano e inglese), spetterebbe poi anche quello di “monitoraggio dell’impatto” degli interventi che le scuole sarebbero state obbligate a mettere in atto, addirittura di anno in anno.
Tale prospettiva, letta alla luce delle ulteriori riforme previste dal PNRR, in particolare l’introduzione dell’obbligatorietà di percorsi di formazione e accreditamento da associare alla carriera docenti – feticcio della politica scolastica e sindacale della sinistra liberal da Berlinguer in avanti – ci conducono su un terreno molto diverso e sicuramente più preoccupante.
1. Un progetto datato, e fondato sul criterio della competizione
L’associazione “buona scuola” – “buoni risultati nei test standardizzati”, ed evidentemente “buon insegnante” capace di conseguirli, non è certo una novità politica in campo educativo. Le esperienze internazionali sul campo, più che trentennali, sono note.
Anche in campo nazionale, tuttavia, il PNRR non introduce nulla di nuovo. Semplicemente utilizza la leva dell’emergenza pandemica per accelerare ed aggirare il confronto e il conflitto politico-sindacale dei lavoratori, che seppur fiaccato e debole, avrebbe potuto trovare nuovo slancio e nuove alleanze, dopo due anni di didattica a distanza che, nel bene e nel male, hanno rimesso la scuola al centro dell’attenzione delle famiglie e della società civile.
Andiamo, infatti, a riprendere quanto gli autori Daniele Checchi, Andrea Ichino e Giorgio Vittadini scrivevano nel 2008.
I tre economisti fin da allora prefiguravano un sistema di premi e punizioni delle varie professionalità scolastiche, in funzione degli esiti dei test INVALSI. Nel documento inviato all’allora Ministro dell’istruzione, Mariastella Gelmini, oggi Ministro per gli affari regionali del Governo Draghi.
Nel testo denominato “Un sistema di misurazione degli apprendimenti per la valutazione delle scuole”, che ha costituito la base per la costruzione dell’architettura dell’attuale Sistema Nazionale di Valutazione, leggiamo:
L’attività dei tre autori – che all’epoca suggerivano criteri e obiettivi che
“dovrebbero essere patrimonio comune sia della “destra” che della “sinistra” nel nostro Paese, così come accade negli altri paesi con cui ci confrontiamo”,
non si è peraltro fermata a quanto scrivevano nel 2008.
Sia Checchi che Ichino che Vittadini, infatti, hanno continuato nell’elaborazione, a vario titolo, di proposte di policies scolastiche che si sono via via rivelate particolarmente incisive, alla luce dell’attuale assetto del sistema di istruzione. Ad esempio:
Daniele Checchi, oggi membro dell’Assemblea del Forum Disuguaglianze e divesità, di recente ha scritto:
“..in altri paesi la classificazione di “scuola di insuccesso (failing school) produce normalmente interventi didattici, che partono dall’invio di ispettori, possono proseguire con la rimozione del dirigente e possono culminare con la chiusura della scuola e/o la sua trasformazione istituzionale in partnership pubblico-privato (charter schools, academies). Nulla del genere è stato previsto nel contesto italiano.. Non è chiaro se si tratti di una scelta strategica (nel qual caso ne sfuggirebbero i benefici attesi) o di una incapacità di raggiungere un consenso adeguato..)”.
chiarendo senza fraintendimenti la funzione strategica dell’uso dei test INVALSI come strumento di governance utile per intervenire sull’assetto pubblico del sistema di istruzione.
Andrea Ichino, editorialista sempre molto prolifico in tema di valutazione scolastica, nel 2013 con Guido Tabellini scriveva il pamphlet “Liberare la scuola”, auspicando proprio un modello di istruzione a metà strada tra le Academies inglesi e le Charter schools americane. In un’intervista dal titolo inequivocabile (Liberiamo la scuola dall’asfissia statalista) l’economista dichiara[1]:
“La nostra proposta integra l’esperienza delle “Charter Schools” negli USA e quella delle “Grant Maintained schools” (GMS) in UK. Come nelle Charter schools, presidi, genitori, docenti o enti esterni potranno formare comitati che si candidano a gestire una scuola. Non sarà però l’autorità statale a contrattare il programma, che sarà invece sottoposto all’approvazione di elettori definiti in rapporto al bacino di utenza della scuola (come nelle GMS). In caso di approvazione, a maggioranza degli aventi diritto, il comitato gestirà la scuola in totale autonomia per quel che riguarda il personale (in particolare assunzioni, retribuzioni ed eventuali licenziamenti degli insegnanti), le attrezzature e il disegno dell’offerta formativa.
L’autonomia avrà però un controllo. Gli studenti delle nuove scuole autogestite dovranno superare gli stessi test ed esami che ogni altro studente dovrà affrontare.“
Infine, Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà,
è di recente intervenuto come teorico delle character skills e sostenitore del nuovo curriculum dello studente.
2. La posta in gioco: scardinare il sistema della scuola pubblica statale
Capiamo quindi che ciò che il PNRR ci presenta come un intervento contestualizzato di recupero delle competenze di base, con il nobile e dichiarato intento di contrastare povertà educativa, se letto alla luce di quanto le politiche scolastiche da anni vanno auspicando e del complesso di interventi del PNRR – dalle carriere docenti ai Patti di comunità – assume una connotazione del tutto diversa.
E cioè quella di ultimo tassello di un ampio mosaico di riforme che puntano ad una ristrutturazione complessiva – e decisiva – dell’assetto e anche della distribuzione di poteri e competenze del nostro sistema di istruzione. Un passaggio di tipo culturale che potremmo definire epocale: da una cultura istituzionale di tipo statale e unitaria ad una cultura di stampo personalistico-comunitaria, radicata soprattutto nell’area del cattolicesimo liberale, che trova il suo fondamento nel principio di sussidiarietà.
Tale passaggio porterebbe a compimento quei processi di liberalizzazione, concorrenza e decentralizzazione che da Berlinguer in avanti hanno ispirato le riforme di sistema, guadagnando una straordinaria e pressoché completa convergenza politica.
3. I test INVALSI, i Livelli Essenziali delle Prestazioni e l’Autonomia Differenziata
Tali processi giungono, peraltro, oggi, ad un punto decisivo.
Sappiamo infatti che Il governo Draghi, con il Documento di Economia e Finanza 2021, ha confermato, tra i disegni di legge collegati alla legge di Bilancio 2022-2024, il DDL “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art.116, 3° comma, Cost.”. Si tratta di quel regionalismo differenziato che, previsto con la modifica costituzionale del 2001, ha ritrovato nuovo slancio e fertile terreno politico dal 2018 in avanti[2] ( qui, un più recente approfondimento).
Nel libro “Lo specchio della scuola” il Ministro Bianchi scrive, a proposito dell’autonomia scolastica:
“Io concordo con Bertagna [2020] quando ritiene che il vero problema sia l’identità tra pubblico e statale e tra statale e pubblica amministrazione centrale, che continua a reggere i rapporti tra istituzioni fin dall’Unità d’Italia”.
Qui il riferimento al pedagogista Giuseppe Bertagna, teorico della riforma Gelmini, è al recente saggio: “Le due gambe del pluralismo, autonomia e libertà di scelta educativa”[3], in cui, tre l’altro, si auspica un superamento dell’attuale assetto del sistema di istruzione, che vada “oltre la scuola statale” e realizzi finalmente il “pluralismo eduvativo”:
“Trasformare le scuole statali in scuole pubbliche. (..) non si comprende perché se le scuole pubbliche istituite da enti privati possono scegliere i dirigenti, i docenti, il personale amministrativo e ricevere o no (..) la fiducia dagli allievi e dalle famiglie, rispondendo nel bene e nel male di ciò che fanno, ciò debba essere impedito alle scuole pubbliche istituite dallo Stato, ma affidate in gestione alle societates professionali (..) attive nei territori. Solo con questo riconoscimento è possibile accendere una competizione virtuosa tra scuole pubbliche statali e non statali, in termini di qualità offerta, percepita e valutata dei servizi e degli apprendimenti”.
La funzione stessa dello Stato rispetto all’istruzione dovrebbe, secondo Bertagna, limitarsi a ruolo di “controllo e perequazione” attraverso una pubblicazione trasparente degli esiti dei controlli effettuati su “rispetto delle regole di governo dettate” e “risultati dell’apprendimento degli studenti”.
In questo modo si garantirebbe alle famiglie:
“un esercizio sempre più responsabile della libertà di scelta e anche intervenire a ritrattare la parità per le scuole non statali che non meritino più di essere pubbliche e a commissariare in via temporanea, con qualificate équipes professionali sostitutive, la gestione delle istituzioni scolastiche statali risultate inadempienti nel rispetto dei livelli essenziali del servizio pubblico di istruzione e formazione”
Tale passaggio ci sembra rivelatore della reale funzione dei test INVALSI.
Il che spiega la necessità di test censuari, ossia svolti da 2,5 milioni di studenti ogni anno, dai 7 ai 19 anni. Solo una rilevazione censuaria – e non campionaria, come per i test OCSE PISA – garantisce, infatti, la possibilità di definire quei “livelli essenziali” di performance misurata per ogni singolo studente attraverso i quali individuare le scuole fallimentari (failing school, ci ricorda Checchi), la cui gestione inadempiente andrebbe commissariata.
Il test INVALSI rappresenta dunque l’indicatore chiave per la costruzione proprio di quei LEP, livelli essenziali delle prestazioni, la cui definizione presiede alla differenziazione su base regionale del servizio di istruzione e formazione, delineata dai progetti di autonomia differenziata.
Il regionalismo differenziato condurrebbe ad una modifica sostanziale dell’assetto delle competenze statali in tema di istruzione, che il Ministro Patrizio Bianchi ben conosce, essendo stato membro della delegazione trattante della Regione Emilia Romagna nel negoziato con il Governo ai fini della sottoscrizione dell’intesa del 2018.
Nell’audizione in Commissione bicamerale del 26 maggio scorso, la ministra per gli Affari Regionali Mariastella Gelmini, nominata dal governo Draghi ed ex membro della delegazione trattante lombarda, ha sostenuto di voler completare l’iter della legge quadro iniziato dal predecessore, Ministro Boccia, entro l’estate. E di procedere dunque speditamente perché l’autonomia differenziata “è in cima alle priorità”.
Ricordiamo che le richieste di potestà legislative avanzate da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, prefigurano:
1) la realizzazione di uno scenario di massima decentralizzazione regionale (Veneto, Lombardia) con il passaggio in capo agli organi di governo regionali di tutta la disciplina di organizzazione e rapporto di lavoro del personale (dirigente, docente tecnico ausiliario e amministrativo); la disciplina della programmazione della rete scolastica, della definizione del fabbisogno regionale di personale e la relativa distribuzione sul territorio regionale; la disciplina dell’assegnazione dei contributi alle scuole paritarie; la disciplina dell’alternanza scuola lavoro e degli organi collegiali regionali; fino a quella fondamentale di definizione delle finalità, delle funzioni e dell’organizzazione del sistema educativo regionale, con la definizione delle modalità di valutazione del sistema educativo regionale in collaborazione con l’INVALSI;
2) la realizzazione di uno scenario intermedio di decentralizzazione regionale (Emilia Romagna), indirizzata all’istruzione tecnica e professionale, tuttavia richiedendo, come Veneto e Lombardia, l’esercizio della competenza relativa alla determinazione di un organico regionale, oltre all’istituzione di un fondo per gli organici che potrà essere utilizzato nel caso di organico aggiuntivo.
Capiamo bene, come d’altra parte ha recentemente ricordato la rivista scolastica Scuola Sette[4], che la differenziazione contrattuale tra lavoratori sulla base di un organico regionale:
“[La scelta dell’organico regionale…] è la madre dell’autonomia rafforzata nel campo dell’istruzione. La possibilità di gestire i contingenti di organico fra numeri, classi di insegnamento, orari di servizio, consentirebbe di attivare criteri diversi di formazione delle classi”,
permetterebbe infatti di superare quel:
“modello scolastico nazionale (che) finora non ha fatto altro che ricalcare il peggior modello di funzionamento dei servizi pubblici in Italia.”
La deriva autonomistica in campo di istruzione poggia dunque sui test INVALSI intesi come strumento di definizione e di misurazione censuaria dei livelli di prestazione in campo educativo. Solo scardinando e rifiutando questo nesso si porrà un argine alla frammentazione regionale della nostra scuola e dell’identità e unità culturale del Paese.
[1] Invitiamo il lettore a consultare il significativo commento dell’economista Paolo Sestito, ex presidente INVALSI, sull’ipotesi dell’ opting out scolastico.
[2] Gianfranco Viesti, per primo, l’ha definita secessione dei ricchi, Massimo Villone ha sottolineato il pericolo di istituzionalizzazione delle diseguaglianze, in un Paese che non crede più nel valore dell’unità, Roberta Calvano ne ha approfondito i nessi proprio in tema di istruzione e formazione.
[3] G. Bertagna “Le due gambe del pluralismo, autonomia e libertà di scelta educativa”, in “Liberare la scuola” a cura di M. Campione ed E. Contu, Il Mulino, 2020.
[4] G. Siena, “Autonomia differenziata e istruzione”, in Scuola 7- 128, 12/03/2019 https://www.scuola7.it/2019/128/autonomia-differenziata-e-istruzione/
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Nelle mani dell’INVALSI e all’ombra dell’autonomia differenziata ultima modifica: 2021-07-03T07:29:38+02:00 da