di Mario Ajello, Il Messaggero, 18.5.2015.
Ministro Giannini, perché il mondo della scuola sembra essere diventato la roccaforte della resistenza anti-governativa?
«Non è una novità il fatto che la scuola, non tutta ovviamente, resista al cambiamento. E’ già accaduto nel 1999, in occasione della riforma di Luigi Berlinguer e anche prima. Quando invece si fanno scelte forti, succede ciò che sta accadendo in questi mesi di proteste. La nostra è una riforma radicale, in senso buono».
Perciò fa paura?
«Se parte del mondo della scuola è conservatrice, e secondo me non la parte maggioritaria, gli italiani sembrano esserlo molto meno. I sondaggi più accreditati dicono che il 43 per cento degli intervistati sono favorevoli alla riforma. Alcune organizzazioni degli studenti ci spingono ad essere più coraggiosi su alcuni punti. E ci siamo impegnati, nel passaggio dalla Camera al Senato, a modifiche e innovazioni per esempio sul diritto allo studio, su una scuola più aperta al territorio e sulla libertà e flessibilità d’insegnamento».
Lei che cosa vede dentro il calderone della protesta?
«Scorgo tre livelli in questa protesta. C’è la resistenza culturale alle novità che noi cerchiamo di introdurre. Quelli che scendono in piazza non vogliono che la scuola si apra a un perfettibile, ma necessario, sistema di valutazione di tutto il processo educativo: che riguarda presidi, insegnanti e naturalmente anche studenti. Quando si protesta contro le prove Invalsi, che comunque non sono in assoluto i migliori test, si nega l’importanza e la necessità di avere uno strumento di valutazione standardizzato, in un Paese pieno di difformità. Invece questi test danno la possibilità di vedere quali sono le diseguaglianze e come intervenire».
l secondo ingrediente della protesta è quello politico?
«Sì, e qui entra in gioco il ruolo del sindacato. Una parte si sta aprendo al dialogo, per esempio la Cisl, mentre altre parti fino ad oggi – nonostante noi avessimo praticato l’ascolto – non sono volute entrare nel merito delle questioni. Si sovrappone alla resistenza culturale una battaglia politica contro il governo. Questo è già avvenuto sul Jobs Act – in cui abbiamo proposto l’eliminazione del precariato – e si ripete ora contro questa legge in cui noi proponiamo l’eliminazione della babele delle graduatorie del precariato storico e il ripristino, da quest’anno, del concorso per nuovi assunti. Oltretutto, questa battaglia politica contro la riforma avviene alla vigilia delle elezioni regionali».
E il terzo livello, nel grande calderone del no?
«E’ quello tecnico. Su cui forse la comunicazione, da parte nostra, non ha funzionato bene. Ma non è facile spiegare in maniera precisa certi aspetti tecnici, in un mondo dell’informazione che sintetizza, come è suo compito, le cose. Nessuno, per esempio, ha mai parlato del preside onnipotente. Un altro mito che si è venuto a creare riguarda la presunta assunzione per una durata di soli tre anni. Ma stiamo scherzando? Nessuno mai, ovviamente, ha pensato una cosa del genere. Il disegno di legge parla invece di incarichi, almeno triennali, una volta che si è stati assunti in maniera definitiva».
Come si batte la resistenza?
«Ribadendo che questo governo ha messo al centro del proprio agire politico l’istruzione. E voglio fare un appello al mondo della scuola, perché si arrivi a posizioni chiare. Vogliamo l’autonomia scolastica vera, sì o no? Vogliamo un sistema di valutazione che ci permetta di sapere a che punto siamo in tutte le scuole, e come si possono migliorare sia la gestione sia l’insegnamento e quindi l’apprendimento, sì o no? Vogliamo una scuola in cui tutti i ruoli siano assegnati secondo un’etica della responsabilità, e quindi valutati come tali, sì o no? Vogliamo l’introduzione dei principi di merito e di premialità anche di tipo economico (200 milioni previsti per questo), sì o no?».
Tornare al nocciolo delle questioni?
«Dobbiamo andare oltre gli slogan. Questo è un dovere nostro, visto che una narrazione imperfetta ha prodotto false credenze. Ma è anche un dovere e un diritto di chi riceve la proposta di riforma: perché di slogan stagionati ne abbiamo sentiti troppi. E quando contro questa riforma vedo in piazza un’alleanza tra destra, sinistra conservatrice, leghisti, grillini, mi accorgo che la dimensione elettorale travalica tutte le altre».
Perché la sinistra progressista ha sempre perso nel tentativo di cambiare la scuola?
«Perché non è mai stata forte come adesso. Noi sentiamo un forte legame culturale tra la nostra riforma e quella del ministro Berlinguer. In un diverso momento storico, si era sentita l’esigenza di ripartire da una scuola autonoma, libera di apprendere e centrale nella società».
Quel progetto si arenò, e adesso?
«L’urgenza di cambiare il sistema è più forte di prima ed è diventata quasi drammatica. In Italia, si può parlare oggi di un’urgenza educativa. La forza di questo governo e del Partito democratico è credere che sinistra e progresso non siano un ossimoro ma un’unica missione. Non ho sempre visto, nella sinistra italiana, una grande voglia di cambiamento. In certi momenti, la sinistra è stata più legata alla conservazione che all’innovazione».
Colpa dei sindacati il flop di ogni tentativo di riforma?
«Non direi questo. Il cambiamento, oggi come in passato, lo deve produrre la politica. Io mi auguro che questa riforma sia un’occasione, per quella parte di sindacato non arroccato su posizioni di mantenimento del potere, di riflettere sul proprio ruolo. Che non può essere sempre quello del frenare. E questa riflessione non deve riguardare solo la scuola, ma soprattutto la scuola. Perché gli insegnanti non sono solo lavoratori ma lavoratori che educano».