Scuola, la fondazione Agnelli: “L’Italia spende 75mila euro per ogni studente, più della media europea”

di Ilaria Venturi, la Repubblica, 21.9.2022.

Alla vigilia del voto un dossier che smentisce luoghi comuni sull’investimento nel sistema scuolastico. Il direttore Andrea Gavosto: “Investire sull’istruzione nel nostro Paese è decisivo, ma più che spendere poco semmai si è speso male”.

Gilda Venezia

“Investire sull’istruzione in Italia è decisivo. Tuttavia la percezione diffusa che si spenda meno degli altri Paesi europei non è corretta. Semmai spendiamo male”. Alla vigilia del voto la Fondazione Agnelli pubblica un dossier per smentire luoghi comuni sulla scuola a suon di dati reali. A partire dalla spesa pubblica sino agli stipendi degli insegnanti. Una fotografia che vuole ricordare alle forze politiche in corsa e che parlano di istruzione (non troppo, in realtà) nei loro programmi e comizi e all’opinione pubblica di cosa parliamo quando parliamo di scuola, per dirla parafrasando Raymond Carver. Almeno sul tema delle risorse. Un tema decisivo in vista dei fondi del Pnrr, quasi 20 miliardi, il grosso nell’edilizia.

L’analisi, fatta elaborando dati di Ragioneria dello Stato, ministero dell’Istruzione, Eurostat e Ocse, è focalizzata sugli investimenti. Prima domanda: è vero che la spesa pubblica per la scuola è diminuita negli ultimi anni? “No, per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, primaria e secondaria la spesa pubblica italiana – come percentuale di Pil – è rimasta stabile e nel 2020 ha ripreso a salire”, è la risposta. La discesa comincia dai tagli del duo Tremonti-Gelmini, poi si stabilizza su un valore sopra il 3% sino al 3,5% del 2020.

Come siamo messi nel confronto con l’Europa che tendenzialmente sull’istruzione ci vede sempre fanalini di coda? Male su tutto il comparto istruzione, dall’infanzia alla laurea (4,3% del Pil contro la media europea del 4,9%). Ma nel dossier, curato dalla ricercatrice Barbara Romano, viene spacchettata la scuola (dalla materna alle superiori) dall’università, dove la spesa pubblica sul Pil è invece bassa (oggi circa 0,3%). Si scopre così che l’Italia non spende meno per la scuola del resto d’Europa: 2% per la secondaria e 1,4 per infanzia e primaria nel 2008; 1,9 e 1,6 nel 2020, come nell’area Euro-19 Paesi. Sotto di noi la Germania (che però schizza al 5,6% considerando anche l’università), sopra Francia e Finlandia.

“Questi sono dati – commenta il direttore Andrea Gavosto – che fanno riflettere. Forse in Italia per la scuola più che spendere poco semmai si è speso male, alla luce dei risultati di apprendimento insoddisfacenti, nelle scuole secondarie nettamente inferiori della media europea, e con enormi divari territoriali e sociali. È un campanello d’allarme per chi governerà. A partire dall’efficacia e dall’efficienza con le quali si sapranno gestire le risorse del Pnrr per gli investimenti sulla scuola”. E

 

Confronto europeo: % spesa pubblica per la scuola sul PIL (esclusa spesa privata)
Confronto europeo: % spesa pubblica per la scuola sul PIL (esclusa spesa privata) 

 

75mila euro per ogni singolo studente

Per ogni singolo studente tra i 6 e i 15 anni l’Italia spende circa 75mila euro, a parità di potere d’acquisto, collocandosi sopra la media europea di 71mila euro. “Questo avviene – spiega la ricercatrice – anche perché l’Italia non ha modificato la sua quota di spesa anche a fronte del declino demografico della popolazione studentesca”. Un declino importante: perdiamo il 12,8% degli alunni in dieci anni, dal 2020 al 2030.

 

Confronto europeo: spesa cumulativa per studente da 6 a 15 anni (in euro PPP-potere d'acquisto, corretti per la differenza nel costo della vita nei diversi paesi)
Confronto europeo: spesa cumulativa per studente da 6 a 15 anni (in euro PPP-potere d’acquisto, corretti per la differenza nel costo della vita nei diversi paesi) 

 

Crescono gli insegnanti precari

Altra sensazione diffusa è che manchino gli insegnanti. Non è così in termini numerici. Disastrosa semmai è la composizione del corpo docente, perché diminuiscono i docenti di ruolo e aumentano i precari, soprattutto nel sostegno. Nonostante le grandi immissioni in ruolo della Buona Scuola che li aveva portati a 730mila – fa notare la Fondazione Agnelli – sono oggi leggermente diminuiti gli insegnanti di ruolo (poco meno di 700mila), principalmente per via dei pensionamenti; sono invece più che raddoppiati i docenti a tempo determinato: l’anno scorso 225mila, incluso il sostegno, rispetto ai 100mila subito dopo la Buona Scuola. Quest’anno non sono molti di meno.

 

E soprattutto, per rispondere alla forte domanda di inclusione scolastica, sono aumentati gli insegnanti di sostegno. In dieci anni il loro peso sul totale del corpo insegnante è passato dal 13% al 21,5%: oggi sono dunque più di un quinto del totale. “Va, però, sottolineato – si legge nell’analisi – come l’aumento del personale di sostegno sia avvenuto grazie al crescente impiego di docenti a tempo determinato (in dieci anni passati dal 39 al 61% del totale del sostegno), la stragrande maggioranza dei quali, però, non sono in possesso di una specifica preparazione, con rischi gravi non solo per la continuità didattica, ma per la qualità del processo di inclusione degli allievi con disabilità”.

Gli stipendi bassi dei prof

Ciò che è incontrovertibile è la busta paga degli insegnanti: è decisamente bassa, lo si sa – non si è arrivati nemmeno alla chiusura del rinnovo del contratto – inferiore a quella della maggioranza degli altri paesi europei. Una forbice che si allarga soprattutto se si considerano le retribuzioni massime, non solo quelle d’ingresso, che in Germania superano i 70mila euro, mentre da noi si fermano sotto i 40mila. La ricerca mette in risalto come non necessariamente la retribuzione massima arrivi a fine carriera come avviene in Italia dove la progressione dello stipendio è legata alla sola anzianità di servizio. Con la riforma legata al Pnrr si è cercato di introdurre un correttivo – il famigerato “professore esperto” – già bocciato e modificato in Senato.

La Fondazione Agnelli torna su un suo cavallo di battaglia: la carriera degli insegnanti. “Caso unico in Europa – ricorda – il contratto di lavoro dei docenti italiani quantifica in pratica solo le ore di lezione. Che, ad esempio, per un professore delle superiori sono 18 alla settimana: a queste si aggiunge un forfait di altre 80 ore nel corso dell’anno lavorativo (quindi circa altre 2 alla settimana) per attività di programmazione, aggiornamento, ricevimento dei genitori. La preparazione delle lezioni e tante altre attività non strettamente di lezione, ma decisive per l’efficacia dell’insegnamento, non sono invece incluse nel contratto, al contrario di quasi tutti gli altri paesi”.

Tra scuola e casa, gli insegnanti italiani dichiarano di lavorare (dati Ocse Talis 2018, relativi alla secondaria di I grado) 26 ore alla settimana, contro una media europea di 33 ore. “Gli insegnanti italiani – osserva Andrea Gavosto – vanno sicuramente incentivati con retribuzioni superiori e più dinamiche, che li avvicinino ai loro colleghi europei, introducendo anche progressioni di carriera e responsabilità. Anche i loro orari contrattuali, tuttavia, dovrebbero andare verso medie europee, per garantire un tempo scuola più lungo e diffuso, didatticamente più ricco, con una qualità dell’insegnamento elevata e sempre aggiornata, grazie a una formazione continua obbligatoria”.

 

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