Vi racconto com’era la scuola di una volta

 

di Francesco Provinciali, Start Magazine, 2.3.2024.

Una volta a scuola si apprendeva l’abc e si studiavano le poesie a memoria, poi gli psicologi hanno stabilito che si trattava di insostenibili vessazioni. Il ricordo di Francesco Provinciali.

Gilda Venezia

Forse mi sbaglio ma una volta le cose si chiamavano con il loro nome.

Oggetti, azioni, funzioni: tutto si spiegava prima e con poche parole, mi pare che la realtà fosse più a portata di mano, tangibile.

Poi sono arrivate le folate di vento del post-moderno: globalizzazione, complessità, trasparenza, sinergie, condivisione, background, retroterra, mappe, diagrammi di flusso, check-up.

Ho dimenticato qualcosa? Mi scusino i lettori amanti degli scandagli introspettivi e delle inconcludenti affabulazioni: anche se sono nato in riva al mare so al massimo distinguere le acciughe dalle sardine.

Però ricordo con nostalgia quella scuola dov’ero entrato per la prima volta come recalcitrante scolaro: mi ero poi affezionato alla maestra e alla fine non sarei mai venuto via.

Ripensandoci adesso mi accorgo che lei e i miei genitori mi insegnavano le stesse cose: studiare, impegnarmi, rispettare le persone più grandi di me, voler bene ai miei compagni.

Forse i risultati non sono arrivati, per mio demerito: lo scolaro era attento ma successivamente l’uomo è stato poco diligente.

Crescendo ho poi incontrato molti illustri sapientoni ma di tutto ciò che ho sentito nella mia vita mi sono rimasti impressi quei tre o quattro valori che la famiglia e la scuola mi hanno inculcato.

Non mi parlavano di intercultura ma mi invogliavano a leggere tanti libri, non si usavano i computer ma si sapeva scrivere una lettera a un amico, se mia mamma mi mandava a far la spesa e non aveva i soldi contati, per responsabilizzarmi mi insegnava a stare attento sul resto, mi piaceva guardarmi intorno e saper distinguere le stagioni.

Quando entravo in classe per prima cosa si pregava e di questo poi non mi sono mai vergognato, non c’erano bambini stranieri ma guai a tradire un amico e se tornando a casa dicevo di essere stato sgridato dall’insegnante mio padre non correva subito alla redazione di un giornale e neanche spediva un esposto in Procura, se mai rincarava la dose: mi mandava a letto senza cena e non mi faceva vedere Carosello.

Per i richiami subìti e le rampogne ricevute giuro di non essermi mai rivolto al Telefono Azzurro.

Il direttore era un mito: se ne sentiva parlare ma si vedeva poco, quasi una leggenda. Se entrava nell’aula ci alzavamo in piedi per rispetto ma nessuno si sognava di andare nel suo ufficio a fare rimostranze, sarebbe stata una cosa inaudita.

Le bidelle si chiamavano proprio così: “bidelle”, non ausiliarie o collaboratrici ma nonostante questo la scuola era davvero pulita. Ricordo che una volta il direttore, trovando la scala sporca, le aveva chiamate tutte e si era inginocchiato a pulire i gradini, proprio lui, con lo straccio e il detersivo e alla fine a loro – che lo guardavano a bocca aperta – aveva detto “si fa così”.

Non era però girata voce che per questo fatto qualcuno si fosse rivolto al sindacato.

Indossavamo i grembiulini perché cambiare vestiti tutti i giorni era un lusso – anche se le magliette non erano firmate – ma si trattava solo di camici, non di camicie nere.

Si apprendeva l’abc e si studiavano le poesie a memoria, poi gli psicologi hanno stabilito che si trattava di insostenibili vessazioni: “alleggerire, troppa fatica”.

Ho sentito l’altra sera, a un TG, quel che diceva un apostolo della pedagogia del nuovo: “Basta insegnare a leggere, scrivere e far di conto! Ora la scuola deve aprirsi alle nuove realtà”.

Può darsi che abbia ragione, resta da intendersi appunto sul significato delle parole.

Personalmente ho dei dubbi, più per pratica che per grammatica.

Da quando nella scuola è entrato di tutto, senza filtri, senza controlli, senza pudori mi pare che le cose si siano a poco a poco rovesciate: il direttore – suo malgrado- non dirige, “coordina”, gli insegnanti sono sempre in riunione e i bidelli fanno venire i sindacati per controllare i loro carichi di lavoro: questo mi tocca, questo non mi tocca.

Anche per gli studenti dev’essere cambiato qualcosa, ma non del tutto per colpa loro.

Più che aprir bocca basta che aprano le loro cartelle: merende, giornalini, telefonini, tablet, videogiochi e pochi libri, di solito troppo pesanti.

Trovo invece che una parola continui a circolare con insistenza, nelle scuole e nella vita, con crescente interesse, una parola di cui tutti si impossessano per scelta e convinta adesione: “diritti”.

Troppi diritti che portano spesso a molti rovesci.

Vi racconto com’era la scuola di una volta ultima modifica: 2024-03-02T16:37:39+01:00 da
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