di Gianluca Gabrielli, Roars, 27.1.2021.
Oggi la scuola primaria si trova ad affrontare un nuovo cambiamento nelle modalità ufficiali di valutazione: l’abolizione del voto in decimi, una riforma che arriva dall’alto, non essendo frutto di diffuse mobilitazioni degli insegnanti. Probabilmente la mancanza di mobilitazioni è segno di una fatica del corpo docente, che negli ultimi anni, ha dovuto subire non solo peggioramenti nelle condizioni di lavoro, ma anche riforme deleterie dell’organizzazione e un’assurda imposizione di didattiche decise fuori dal contesto pedagogico e consistenti in batterie di test come quelli dell’Invalsi che hanno inibito ogni autonoma volontà di sperimentazione e di autoriflessione sulla propria pratica di insegnamento. Questa riforma della valutazione quindi arriva dopo oltre dieci anni in cui è stato detto che dare un voto era meglio che spiegare, che il risultato di un test a risposta multipla era la cosa migliore che si potesse fare per “fotografare” il processo di apprendimento e che la misurazione quantitativa delle risposte a quei test corrispondeva all’oggettiva rilevazione del processi in atto. Difficile pensare che questi dieci anni non abbiano avuto profondi effetti sulle convinzioni e sulle pratiche didattiche diffuse nelle scuole. Ma l’insegnamento è una attività così complessa e sofisticata che sfugge a questo riduzionismo presuntuoso fondato su causa ed effetto. Quando agli insegnanti viene imposto dall’alto di ridurre la propria pratica didattica a comportamenti uniformi non ne può che derivare una crescente tendenza al conformismo e alla sordità verso quegli aspetti imprevedibili, complessi, sfaccettati che costituiscono il nucleo profondo dell’insegnamento-apprendimento. I testi che oggi ci dicono di invertire la rotta (il decreto, l’ordinanza, le Linee guida) rappresentano sicuramente una bella novità, non importa se arrivata ad anno in corso e se è il secondo anno di pandemia: le buone novità non vanno mai rinviate.
Questo contributo è apparso sul sito Comune-info.net, il 13 Gennaio 2021.
I voti: una lunga storia
La storia dei voti nella scuola elementare in Italia è appassionante ed attende ancora una storica o uno storico che la scriva, illuminando attraverso di essa le idee di scuola che si sono fronteggiate durante la seconda parte del secolo scorso e la prima parte di questo. I cari amici Piero e Marcella di Genova mi raccontano di quando, giovani maestri all’inizio degli anni Settanta, consegnavano ai genitori due documenti: la pagella regolamentare in cui tutti i bambini e le bambine erano valutati con lo stesso voto e – in busta chiusa perché non previsti dalla normativa – i giudizi argomentati e personalizzati sul percorso didattico, le personalità, le esperienze di apprendimento. Queste disobbedienze allora non rimasero isolate e spinsero dal basso a una riforma che cancellò i voti come simbolo e strumento di una scuola selettiva, che bocciava alte percentuali di alunni ricalcando semplicemente le condizioni sociali e le origini culturali delle famiglie.
Invece le amiche e colleghe maestre, Marzia, Fiorella, Francesco mi raccontano del 2009 quando, di fronte alla reintroduzione dei voti del ministero Gelmini Tremonti, decisero nelle loro scuole di fare un’opposizione consapevole e determinata, assegnando 10 a tutti i bambini della loro classe, e per questa scelta furono pesantemente puniti dal funzionariato locale del ministero (pur non auspicandolo, mi chiedo se quegli stessi funzionari farebbero oggi lo stesso nei confronti di chi continuasse a dare i voti numerici).
Oggi ci troviamo quindi ad affrontare in classe un nuovo cambiamento nelle modalità ufficiali di valutazione, una riforma che ci arriva dall’alto, non essendo frutto di diffuse mobilitazioni degli insegnanti (ad esclusione di una raccolta firme del Mce). Probabilmente la mancanza di mobilitazioni è segno di una fatica del corpo docente della scuola primaria, che negli ultimi anni, ha dovuto subire non solo peggioramenti nelle condizioni di lavoro, ma anche riforme deleterie dell’organizzazione (pensiamo solo all’abolizione del modello a tempo pieno) e un’assurda imposizione di didattiche decise fuori dal contesto pedagogico e consistenti in batterie di test come quelli dell’Invalsi che hanno inibito ogni autonoma volontà di sperimentazione e di autoriflessione sulla propria pratica di insegnamento.
Questa riforma della valutazione quindi arriva dopo oltre dieci anni in cui ci è stato detto in ogni modo che dare un voto era meglio che spiegare, ci è stato insegnato che il risultato di un test a risposta multipla era la cosa migliore che si potesse fare per “fotografare” il processo di apprendimento e che la misurazione quantitativa delle risposte a quei test corrispondeva all’oggettiva rilevazione del processi in atto, traducibile in voti e comunicabile con profitto a bambini e genitori.
Difficile pensare che questi dieci anni non abbiano avuto profondi effetti sulle convinzioni e sulle pratiche didattiche diffuse nelle scuole. L’insegnamento è una attività così complessa e sofisticata che sfugge a questo riduzionismo presuntuoso fondato su causa ed effetto. Quando agli insegnanti viene imposto dall’alto di ridurre la propria pratica didattica a comportamenti uniformi non ne può che derivare una crescente tendenza al conformismo e alla sordità verso quegli aspetti imprevedibili, complessi, sfaccettati che costituiscono il nucleo profondo dell’insegnamento-apprendimento. Mentre avevamo bisogno di diventare tutte e tutti sperimentatori e innovatori nelle nostre classi, ci hanno imposto di farci esecutori e somministratori di test, premiando i più conformisti.
La nuova norma che abolisce i voti
I testi che oggi ci dicono di invertire la rotta (il decreto, l’ordinanza, le Linee guida) puntano a un solo segmento della pratica didattica, quello valutativo. Si tratta sicuramente di una bella novità, non importa se arriva ad anno in corso e se è il secondo anno di pandemia: le buone novità non vanno mai rinviate.
Piuttosto è importante chiarirsi come interpretarne il testo e dove investire le già ridotte energie che ci ritroviamo a disposizione. La nuova norma infatti può essere considerata in due modi alternativi, che vanno in direzioni esattamente opposte.
Una lettura riduttiva
C’è infatti un modo di leggerla che rischia di vedere in essa semplicemente l’ennesimo tassello del vecchio corso. Una direzione che – pur senza voti numerici – prosegue il percorso di standardizzazione delle didattiche e degli apprendimenti valorizzando le classificazioni, le burocrazie, le tabulazioni, le griglie, gli esperti della didattica a tavolino senza le bambine e i bambini. Questo tipo di interpretazione della nuova norma può spingere le maestre i maestri a lunghe riunioni per declinare i nuovi obiettivi, per moltiplicarli di numero, per concentrarsi e perdere tempo a produrre complessi giudizi da includere nelle nuove schede di valutazione, che possono diventare veri libri, illeggibili da qualsiasi genitore e da qualsiasi collega che non conosca i giovani riferimenti concreti in carne e spirito cui si riferiscono. Il rischio è concreto, gli anni di test Invalsi e di astratte costruzioni di curricoli verticali spingono in questa direzione molte maestre e maestri cui è stato insegnato, a suon di bonus premiali, che la buona scuola è quella che sa stilare belle formule di obiettivi, quella che sa tabulare molti apprendimenti, quella tecnologizzata che sa produrre belle schede di valutazione virtuali sui registri elettronici, magari abolendo i fastidiosi momenti di confronto all’antica con i genitori.
Una lettura radicale (didattica)
L’altro modo di considerare questa nuova norma sposta il baricentro dalla scheda alla didattica, dalle griglie all’ascolto, dalle tabulazioni alle narrazioni. “Si valuta troppo”: è ora di rimettere la “valutazione al servizio della crescita umana e della qualità delle azioni educative”1.
Questo secondo modo di considerare la norma parte dall’affermazione, inclusa nelle linee guida, che il carattere prioritario della valutazione è quello formativo, quello che serve al sostegno del percorso didattico e conduce progressivamente all’autovalutazione delle allieve e degli allievi. Se questa è l’ottica con cui guardare la nuova norma, allora la scheda di valutazione ha un importanza minimale, limitata alla comunicazione efficace con i genitori. In questo caso quindi occorrerà ridurre le energie spese per confezionare complesse schede ma privilegiare la comunicazione in presenza con i genitori, lo scambio di opinioni, le esemplificazioni sulla base dei quaderni e degli elaborati, i racconti aneddotici: il tentativo di prendere per mano i genitori e di portarli attraverso il dialogo all’interno del percorsi di apprendimento e di crescita delle loro figlie e dei loro figli.
La maggior parte delle energie valutative quindi dovrebbe essere indirizzata in un’altra direzione, quella formativa che si dispiega durante tutti i dieci mesi di scuola, in classe e fuori dalla classe, a stretto contatto con le colleghe e con le bambine e i bambini. Dopo undici anni in cui dall’alto ci intimavano di dare voti, bisogna riprendere a costruire in basso, passo dopo passo, un concetto di valutazione completamente diverso, fatto di ascolto, di osservazione, di dialettica tra la raccolta di informazioni progettata a monte della didattica e quella improvvisata a valle, nel corso di un processo che ci sorprende e ci costringe a riprogettare, a cambiare percorso.
L’esperienza complessa dell’apprendimento infatti è sempre pronta a stupirci, spiazzarci, a invitarci a riconsiderare i nostri pensieri di maestre e maestri, ci esorta giorno per giorno a riformulare le attività che avevamo pensato sulla base delle risposte che non ci sono arrivate o che ci sono arrivate diverse da come ce le saremmo aspettate, sia che si tratti della classe, sia che si tratti del singolo bambino o bambina.
E dobbiamo aumentare il dialogo con i nostri allievi e le nostre allieve, uno per una. Non si tratta solo di invitarli all’autovalutazione, ma proprio di ascoltarli, di raccontar loro come li vediamo, come stanno imparando e quali difficoltà stanno incontrando, di chiedere loro come ci vedono, cosa non gli piace del nostro modo di fare scuola. Ci chiedono di non essere considerati solo degli “oggetti” della nostra didattica, dobbiamo loro una considerazione come individui.
Maestre, maestri: reinventiamoci
La nuova norma ci dà tre anni per sperimentare, tre anni in cui abbiamo l’opportunità di reinventarci come maestre e maestri emancipandoci dai test Invalsi e dalla sopravvalutazione della scheda di valutazione, ci dà la possibilità di ricostruirci come innovatori e inventori della didattica dentro le relazioni che vivono nelle nostre aule, che sopravvivono nonostante il covid. Dall’alto ci viene data questa occasione. Le nostre energie non sono infinite. Saperle indirizzare nella giusta direzione, cogliendo questa opportunità, potrebbe segnare veramente un momento di rinascita della nostra scuola, primaria o elementare che sia.
1 Rubo le citazioni di Hadji e di Aglieri da Michele Aglieri, Valutare le scuole: i fini e i mezzi tra bisogni pedagogico-didattici e approccio economico-sociale, p. 39, in La valutazione. Rassegne critiche, a cura di Angelo Gaudio, “Scholé, 1, 2020.