Vivalascuola. La scuola in retromarcia

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Vivalascuola, La poesia e lo spirito, 19.5.2016

Evoluzione8

– La scuola in retromarcia. Sia sul piano didattico che sul piano normativo, economico, sociale. Ne parlano in questa puntata di vivalascuola Benedetto Vertecchi e Giovanna Lo Presti. Mai come quest’anno avanzano nelle scuole comportamenti da caserma o da cosca, sottosviluppo culturale promosso da ubriacatura di test e tecnologie, lavoro nero non pagato per conto dello Stato. Quali soluzioni? La raccolta delle firme per il referendum abrogativo di alcuni commi della legge 107 può essere una grande occasione di discussione nazionale sulla scuola. E poi, come dice Anna Maria Bellesia, una soluzione anche se contingente e provvisoria è “mandare a casa Renzi col referendum istituzionale di ottobre e votare successivamente solo per chi si impegna in modo chiaro e preciso a cambiare gli aspetti controversi della legge 107“. E per cominciare ricordiamoci della cosiddetta “Buona Scuola” del governo in carica anche in occasione delle prossime elezioni amministrative del 5 giugno.

Indice
(Clicca sul titolo per andare subito all’articolo)

Benedetto Vertecchi, La scuola in moto retrogrado
Giovanna Lo Presti, La scuola in retromarcia
Risorse in rete

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Il moto retrogrado del sistema educativo
di Benedetto Vertecchi

Sono molti gli insegnanti che segnalano l’insorgere di difficoltà progressivamente maggiori nella scrittura dei bambini: già dopo due o tre anni di scuola ci sono allievi che sembrano aver smarrito la capacità di tracciare su carta, usando la penna, i segni dell’alfabeto.

Stando a quel che gli insegnanti lamentano e che ho potuto direttamente osservare attraverso l’analisi di un gran numero di documenti prodotti dai bambini, la difficoltà nello scrivere si manifesta in un primo momento con l’evitare l’uso del corsivo, ricorrendo al maiuscoletto, un modo di tracciare i segni dell’alfabeto solo apparentemente più semplice. Si tratta, invece, di una soluzione di ripiego, perché il maiuscoletto non offre le stesse opportunità della scrittura corsiva di acquisire quella scioltezza del coordinamento percettivo-motorio che è alla base della scrittura manuale e rappresenta un momento importante nello sviluppo, mentale e fisico, dei bambini. Non può non preoccupare osservare successioni di lettere malformate, che a fatica sono accostate per formare le parole: è fin troppo evidente che in troppi casi, dopo una prima introduzione alla pratica di scrittura, prevalentemente centrata sul corsivo, hanno finito col prevalere anche nell’attività didattica, in modo diretto o indiretto, pratiche sociali derivanti da utilizzazioni consumistiche, e per lo più scriteriate, di mezzi tecnologici.

Il quadro non migliora (né ci si potrebbe attendere che ciò accada)passando dalla scuola elementare alla scuola media. Ci si trova di fronte a limiti sempre più evidenti nella capacità di produrre segni, sostituiti in alcuni casi estremi da caratteri a stampa ritagliati da giornali e riviste (come in una lettera anonima), ma in casi molto frequenti dall’uso banale della funzione di copia e incolla dei programmi per l’elaborazione dei testi. Accade (me l’hanno segnalato dei genitori) che gli stessi inseganti diano indicazione agli allievi di riprendere i testi per le loro ricerche da Wikipedia.

Questo è solo l’inizio di una riflessione che prende l’avvio dalla considerazione di aspetti della realtà educativa dei quali occorre essere consapevoli. Non vorrei essere frainteso: li ho menzionati non per invocare il ritorno puro e semplice a stili d’intervento educativo che rispondevano a esigenze lontanissime da quelle che oggi si manifestano, ma perché ritengo che, proprio partendo dall’osservazione delle tendenze in atto, sia possibile rivedere atteggiamenti e comportamenti che hanno il solo effetto di accelerare processi involutivi come quello al quale ho fatto riferimento a proposito della scrittura.

Non è casuale che queste considerazioni abbiano preso avvio proprio dal declino delle capacità alfabetiche, perché su di esse poggia l’intero edificio dell’educazione formale, così com’è venuto precisandosi negli ultimi cinquecento anni (e cioè da quando fu enunciato, nell’ambito della Riforma di Lutero, il principio del libero esame, che poteva avere attuazione solo tramite l’alfabetizzazione del popolo cristiano). La pubblicazione delle Tesi alla porta della Cattedrale di Wittenberg, la Vigilia di Ognissanti de 1517, per il fatto di richiedere un cambiamento radicale nel profilo culturale della popolazione, può essere considerata, al di là delle implicazioni religiose, il vero e proprio atto di nascita della scuola moderna. L’istruzione di base si presentava come un diritto per il cristiano, che attraverso di essa poteva accedere alle Scritture, ma anche come un dovere, perché il libero esame dei testi sacri era essenziale per dare senso all’esperienza terrena.

Alla crisi della scrittura si dovrebbe subito affiancare quella della lettura, del calcolo, della manualità intelligente, delle associazioni complesse di lettura, scrittura e comportamento, del saper operare per la trasformazione di materiali, del produrre suoni, dell’osservazione della natura (reale, non virtuale) e via seguitando. C’è un filo che unisce i tanti aspetti della crisi dell’educazione, a cominciare dalla scrittura: tale aspetto è costituito dalla perdita di autonomia che consegue al venir meno della capacità di collegare il pensiero e l’azione, riducendo al minimo indispensabile gli apporti aggiuntivi. È del tutto contraddittorio richiamare ossessivamente il principio dell’autonomia delle scuole quando tutto concorre a negare tale principio proprio negli effetti dell’attività educativa, ridotta a ruoli complementari rispetto ad altri settori dell’attività sociale (per esempio, la produzione di beni e servizi), e a funzioni integrative nei confronti di una sapienza reificata nelle dotazioni strumentali per l’insegnamento e l’apprendimento, come sta avvenendo per la pressione del marketing aggressivo dei produttori di risorse digitali.

La subalternità dell’educazione al mercato sostituisce al perseguimento di traguardi specifici, che corrispondano a un progetto per lo sviluppo della cultura diffusa e per la fruizione comune del patrimonio immateriale accumulato nel tempo e accresciuto tramite l’impegno per l’acquisizione di nuove conoscenze, comportamenti ripetitivi, che sostituiscono la capacità di operare collegando liberamente l’attività mentale con elementi di esperienza e con operazioni intelligenti che comportino interazioni complesse con le persone e con le cose. Il consumismo al quale facevo riferimento si esprime tramite usi delle nuove risorse oggi disponibili che, a differenza di quanto è avvenuto in atre fasi dello sviluppo storico, tendono a sostituire con procedimenti automatizzati operazioni che sono essenziali per lo sviluppo sia mentale sia fisico di bambini e ragazzi e che comportano, anche per gli adulti, alterazioni della memoria sulle cui conseguenze è opportuno interrogarsi.

La regressione della scrittura è un segnale che suscita allarme non solo per i riflessi sul profilo delle persone, ma soprattutto per le conseguenze sociali e politiche. In apparenza le nuove risorse sembrano potenziare le opportunità di accedere alla conoscenza e di comunicare il proprio pensiero. Nei fatti avviene il contrario: si scrive sempre di meno per la semplice ragione che quel poco che si vorrebbe comunicare con simboli alfabetici è formulato tramite dispositivi che richiedono sempre meno di possedere le competenze linguistiche necessarieper esprimere un pensiero di qualche complessità. I dispositivi d’integrazione automatica della scrittura presenti nei telefonini stanno sostituendo anche la produzione residua di testi per formulare i quali sia necessario operare con i simboli alfabetici. E si tratta probabilmente di una soluzione transitoria, dal momento che anche quel minimo di scrittura sta per essere soppiantato da comunicazioni solo orali.

Il fatto è che la modernizzazione così ampiamente promossa ed esibita, dal punto di vista educativo (ma, a mio giudizio, anche da quello sociale e politico), produce il ricrearsi di quegli steccati di classe che il grande sviluppo della scolarizzazione poteva far pensare che, almeno in parte, potessero essere stati superati.

In vari paesi si sta approfondendo il solco che separa i bambini e i ragazzi appartenenti agli strati favoriti della popolazione dagli altri: i primi (una minoranza) fruiscono di opportunità educative sostenute prioritariamente dalla qualità delle interazioni con gli insegnanti, mentre gli altri allievi sono soggetti a processi di fascinazione marginale, sempre più inconsistenti dal punto di vista culturale. Vorrei che queste riflessioni fossero solo espressione del timore di ciò che potrebbe accadere: troppi dati mostrano, invece, che lo scenario che ho tratteggiato è fin troppo sbiadito. Un numero crescente di adulti non è in grado di usare la lingua scritta e troppi bambini e ragazzi perdono tale capacità poco dopo averla acquisita. Bisogna uscire dall’ambiguità e dichiarare quali scelte si intendono effettuare per qualificare il profilo della popolazione. Se la scrittura è parte non rinunciabile di tale profilo (e non vedo come possa non esserlo, a meno di promuovere un illetteratismo di massa) ci si deve impegnare non solo per potenziare il sistema educativo formale, ma altrettanto per conferire un nuovo spessore di pensiero ai messaggi che hanno origine nel contesto della vita quotidiana. [torna su]

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La scuola in retromarcia
di Giovanna Lo Presti

Quando ho iniziato ad insegnare mi è parso subito che qualcosa a scuola non funzionasse. Erano i primi anni Ottanta, avevo pochi anni in più degli studenti del triennio dell’istituto tecnico che mi erano toccati in sorte e sentivo ancora vivo il ricordo del mio periodo liceale. Il decennio che mi separava da quei ragazzi aveva spento speranze, acceso i miti del consumismo, cominciato ad ottundere le coscienze. La pitonessa Thatcher profetizzava che “la società non esiste”: il che significa che esiste soltanto l’individuo, pronto a battersi per la propria affermazione, spinto da uno spirito di cieco egoismo, in perenne competizione con miriadi di altri individui dominati dagli stessi principi. Dall’altra parte dell’Oceano, faceva eco alla “Lady di ferro” Ronald Reagan, la cui grezza politica neoliberista nulla aveva da invidiare alla linea seguita dallapremier inglese. Adesso Reagan e Thatcher se ne sono andati da anni, l’uno spento dall’Alzheimer, l’altra preda della demenza senile – quasi un inveramento, nella malattia della loro vecchia, di quella cecità dell’intelligenza che aveva guidato la loro azione politica. Ma allora, nei primi anni Ottanta, in Italia trionfava la “Milano da bere” e del piano inclinato che doveva portare in poco tempo anche da noi ad una società sempre più diseguale non si intuiva nemmeno la pendenza.

Non studiare solo per il lavoro ma…

Ma a scuola, però, qualcosa non andava, ancorché gli studenti studiassero abbastanza. I più, però, studiavano solo e soltanto per il diploma, per un futuro lavoro – ed erano quasi infastiditi dal fatto che ci fossero, nell’orario di lezione, materie come Italiano e Storia, delle quali non riuscivano ad intuire la necessità e l’utilità. In quegli anni, il mio compito più importante era quello di spiegare quanto l’essenziale, per noi esseri umani, sia difficile da definire e come ciò che ci dà più gioia sia spesso legato ad aspetti inessenziali, se giudicati con il metro utilitaristico. Non mi è mancato un certo successo, in quest’opera di proselitismo: ma sentivo che qualcosa non andava.

Da allora la visione utilitaristica del processo di apprendimento è divenuta la norma. L’immaginario degli studenti è ormai colonizzato dall’uso abnorme delle “nuove tecnologie”, quelle stesse che mille documenti ministeriali invocano come la miracolistica soluzione di ogni problema didattico. Il diploma non è più spendibile, non introduce ad un lavoro e la disoccupazione giovanile è un fantasma con cui i ragazzi sanno che dovranno scontrarsi. Intanto i nostri governanti – ultimo in ordine di tempo Renzi il Giovane – non trovano nulla di meglio che addebitare l’allarmante disoccupazione alla insufficiente preparazione scolastica e sembrano essere i soli ad ignorare che in Italia il numero di lavori a medio-alta qualifica è nettamente basso e di molto inferiore alla disponibilità di posti di lavoro a bassa qualifica. Sembra che chi governa sia colpito da una sorta di idiozia selettiva, perché soltanto un grave deficit nella comprensione dell’esistente può mettere tra parentesi il declino dell’Italia ed invocare come rimedio alla de-industrializzazione galoppante una preparazione degli studenti più adeguata alle richieste del mondo del lavoro. A meno che non si intenda con questo postulare l’adattamento dei giovani alla precarietà, all’asservimento alle esigenze del datore di lavoro, ad iniziare dai banchi di scuola.

… studiare anche se non procurerà lavoro

Insomma, se trent’anni fa si doveva far comprendere agli studenti che studiare per il diploma non doveva servire soltanto per procurarsi un lavoro adesso bisogna fare gli equilibristi e sostenere che, anche se il diploma non procurerà un lavoro, bisogna lo stesso studiare e studiare bene. Non è facile sostenere che noi siamo in quanto conosciamo, in un mondo in cui i modelli dominanti e vincenti sono quelli delle starlette e dei calciatori.

L’istituto tecnico in cui insegnavo era diverso dal mio liceo non solo per la scarsa propensione degli studenti al sapere in quanto tale; diversa era anche la provenienza sociale dei ragazzi. Ho frequentato, negli anni Settanta, un liceo classico illustre a Torino: nella mia classe c’erano figli di proletari e figli dell’alta borghesia ed il ceto medio era rappresentato in tutti i suoi strati. Sebbene noi del liceo avessimo quindi anche il privilegio di non percepire la matrice di classe della scelta scolastica, di certo questa esisteva, in parte, anche negli anni Settanta e la si notava soprattutto nelle scuole professionalizzanti. Negli anni Ottanta, ai miei occhi di insegnante, appariva ormai lampante quanto la scelta della scuola fosse stata, in gran percentuale, una scelta della famiglia e non dello studente.

La matrice classista della nostra scuola superiore si è consolidata decennio dopo decennio. Numerosi studi ed indagini statistiche su questo argomento convergono in un punto: la scelta scolastica è legata a doppio filo alla famiglia di origine. Ad esempio – ed è un dato eloquente – il figlio di un dirigente o di un libero professionista ha chance di arrivare alla laurea cinque volte superiori al figlio di un operaio (36,5% contro 7,3%). (1)

Un lavoro pagato poco è un lavoro che vale poco

La scuola, allora, era piena di giovani insegnanti – eppure mi pareva che alcuni di loro fossero già proni di fronte all’esistente, che altri avessero già ceduto alle sirene del “didatticismo” (per il quale non importa tanto cosa si insegna né come, ma importa piuttosto l’applicazione di un protocollo, di una procedura), che altri (altre) ancora fossero più preoccupati del secondo lavoro che non della scuola. Qualche aspetto positivo pur c’era: intanto l’età media dei docenti era molto più bassa di adesso ed i colleghi più anziani, non essendo ancora decrepiti, avevano desiderio di collaborare con i giovani. Tale scambio di idee non poteva che essere benefico – ad insegnare si impara insegnando in condizioni accettabili, e con una certa stabilità. Oggi la piaga del precariato (che significa, per chi lo ha subito, lavorare male ed in stato di perenne incertezza) ci ha fatto perdere la formazione “sul campo” di due generazioni di insegnanti – ed è un danno a cui non si potrà portar rimedio.

Partecipai, era il 1987, alle proteste che portarono, un anno dopo, alla firma dell’unico contratto della scuola che abbia dato notevoli aumenti stipendiali ai docenti; ero convinta che in una società di mercato un lavoro pagato poco è, tout court, un lavoro che vale poco. In ogni caso anche gli insegnanti, come peraltro tutti i lavoratori, hanno diritto ad uno stipendio dignitoso. Tra il 1986 ed il 1988 nasce e si consolida un movimento di lavoratori della scuola “autoconvocati”, in aperta polemica con l’atteggiamento compromissorio dal sindacalismo confederale; su quel terreno si formeranno i Comitati di base della scuola (COBAS), dai quali presto si staccherà la Gilda, in nome di uno specifico riconoscimento della funzione docente; poi verrà un ulteriore sgretolamento e ci saranno altre sigle del sindacalismo di base, in costante ed aperta opposizione al consociativismo di CGIL, CISL e UIL. Dopo l’exploit del contratto del 1988, i ritardi nel rinnovo dei contratti e risorse sempre più limitate causeranno una progressiva erosione salariale, di cui oggi vediamo gli esiti ultimi. Nonostante la sentenza della Corte Costituzionale che nel giugno 2015 dichiarò illegittimo il pluriennale blocco contrattuale a tutt’oggi i dipendenti statali possono contare, per l’eventuale rinnovo del contratto, su risorse che ammontano a pochi euro mensili di aumento.

La scuola in appalto ai privati

Quando ho cominciato ad insegnare, ricordo che alcuni colleghi, convinti sostenitori della laicità della scuola, mugugnavano parecchio a causa di rivoli di denaro pubblico che, tra le “pieghe del bilancio” transitavano verso le scuole private e, in particolare, verso le scuole confessionali. Dopo pochi anni ci fu la legge di parità (2), che così recitava nella parte iniziale:

Il sistema nazionale di istruzione, fermo restando quanto previsto dall’articolo 33, comma 2 della Costituzione, è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali. La Repubblica individua come obiettivo prioritario l’espansione dell’offerta formativa e la conseguente generalizzazione della domanda di istruzione dall’infanzia lungo tutto l’arco della vita”.

A completare il quadro, rendendo molto, molto sfumato il dettato costituzionale, è intervenuta la riforma del Titolo V della Costituzione che riconosce Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni come istituzioni costitutive della Repubblica, al pari dello Stato, e non più come una semplice articolazione interna di quest’ultimo; parallelamente, riconosce l’autonomia delle istituzioni scolastiche.

La conseguenza è che sempre più denaro pubblico affluisce verso le scuole private; quest’anno (l’ennesimo di tagli all’istruzione statale, nonostante le fanfaronate di Renzi) il finanziamento sfiora i 500 milioni di euro. Ma, quel che è peggio, l’inesistente ministro per l’Istruzione ha spiegato in un suo intervento alla Fondazione Treelle (2014):

«Se domani mattina tutte insieme le scuole paritarie spegnessero le luci, cosa che non deve succedere, avremo un grande problema: dovremmo mettere sul piatto 6 miliardi di euro».

Persino la Fondazione Agnelli, di fronte ad una simile sparata, si è affrettata a correggere il tiro; ecco cosa risponde Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli:

«Se anche “per assurdo” tutte le scuole paritarie chiudessero e lo Stato dovesse riassorbirne gli allievi il costo aggiuntivo che lo Stato dovrebbe affrontare sarebbe molto modesto. Infatti, nel complesso della scuola primaria e secondaria italiana il rapporto fra insegnanti e studenti resta uno dei più bassi a livello internazionale (lo conferma anche il recentissimo rapporto Talis 2013, secondo il quale il docente tipo italiano insegna in una classe di 22 allievi, contro i 24 della media Ocse). Per accomodare i circa 400mila studenti di scuola primaria e secondaria in più provenienti dalle paritarie non sarebbe necessario un significativo incremento di aule e insegnanti; basterebbe aumentare di poco più di un’unità la composizione media di ciascuna classe, con qualche variazione territoriale”.

Quella di dare in appalto ai privati la propria scuola non è una novità per lo Stato italiano. All’inizio degli anni Sessanta Guido Calogero interveniva rispetto ad una proposta della Democrazia cristiana, che voleva assegnare, agli alunni frequentanti scuole paritarie di istruzione dell’obbligo e di formazione professionale, contributi annuali “pro-capite” di entità pari all’80% del costo di esercizio per ciascun alunno delle corrispondenti scuole statali:

Ora, in Italia si sta proponendo che lo Stato, riconosciuta la sua inettitudine a fornire a tutti i cittadini quello stesso grado d’istruzione che la Costituzione stabilisce come obbligatorio per ciascuno di essi, ceda la necessaria integrazione di tale servizio scolastico in appalto ad ogni privato il quale (offerte alcune ancora ignote garanzie) sia disposto a farsi pagare il venti per cento di meno rispetto alla spesa che per tale servizio dovrebbe sostenere l’erario” (3).

Con stile d’altri tempi, dopo aver deprecato il fatto che si potesse pensare di finanziare, in nome della “parità”, una scuola di parte, Calogero conclude:

“Ma noi deprechiamo che anche solo un giovane italiano possa essere diseducato nel chiuso di una scuola ad una sola voce, col contributo finanziario di tutti quanti i cittadini” (4).

Il coraggio della barbarie

Niente di nuovo, quindi, sotto il sole; ma ai tempi di Calogero, all’inizio degli anni Sessanta, si annunciava una stagione di riforme progressiste, prima fra tutte quella che istituì la scuola media unica, mentre a noi tocca difenderci dai miasmi tecnocratici e meritocratici della “buona scuola”. Per la prima volta, con la “buona scuola”, il nostro Stato ha il coraggio barbaro di dichiarare che non ci sono abbastanza soldi per garantire una scuola statale per tutti coloro che ne hanno diritto:

Le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra scuola. Stiamo parlando della più grande e preziosa rete pubblica del Paese, ma anche di un cantiere sempre aperto, che richiede costante cura e aggiornamento. La scuola è una frontiera mobile: se pensiamo alle sfide della competizione globale, al dinamismo di una società sempre più multiculturale, alla rapidità del cambiamento tecnologico, capiamo subito le esigenze di una continua sperimentazione educativa. Vale per la scuola quanto è ormai ovvio per moltissimi altri ambiti, a partire dalla ricerca: sommare risorse pubbliche a interventi dei privati è l’unico modo per tornare a competere”. (5)

Queste che ho appena presentato sono le prime tessere che metterei in campo se dovessi spiegare in che cosa consista il moto retrogrado della scuola italiana. Ogni tessera è importante per comprendere e comporre il disegno complessivo. La conclusione è scontata: la scuola ha innescato la retromarcia perché la nostra società, nel suo complesso, ha perso la spinta progressiva verso una maggiore solidarietà ed un maggior benessere per tutte le persone che la compongono. Di per sé, l’istruzione è un potente fattore di eguaglianza sociale: il dominio si esercita a partire dall’ignoranza e l’ignoranza non è la mancanza di conoscenza settoriale ma la mancanza di idee forti che siano in grado di porre le basi di un sapere specifico e di spingere il singolo a comprendere i meccanismi che regolano la totalità in cui vive. Senza questa necessaria impalcatura mentale, ogni persona annaspa nell’isolamento e trova in quella che molti secoli fa è stata definita “servitù volontaria” un rifugio apparentemente sicuro.

Rispuntano le tre I di Berlusconi

Ora, quando si guarda alle priorità che la “buona scuola” di Matteo il Giovane mette in evidenza non si può non essere assalii da un moto di sconforto. Rileggiamo le priorità, espresse nella recente Nota del MIUR (6) relativa all’aggiornamento dei docenti:

Sono in fase di predisposizione alcune linee di azione nazionali, mirate a coinvolgere un numero ampio di docenti nei seguenti temi strategici: le competenze digitali e per l’innovazione didattica e metodologica; le competenze linguistiche; l’alternanza scuola-lavoro e l’imprenditorialità”.

Un po’ camuffate, rispuntano le “tre I” di Berlusconi: Informatica, Inglese, Impresa che, se sono prioritarie per la formazione degli insegnanti, lo saranno altrettanto per la formazione degli studenti. È uno scandalo che, a fronte della evidente incapacità di gran parte degli studenti di comprendere pienamente un testo scritto nella lingua madre (e ci si chiede che uso facciano i sostenitori dei test nazionali ed internazionali dei risultati degli stessi) si propugni con pervicacia l’idea dell’insegnamento di una materia non linguistica in lingua straniera, cioè in inglese (la lingua del dominio mondiale). Pecca ancor più grave è il non riflettere sull’effetto devastante causato dall’uso precoce delle “nuove tecnologie”, che fanno calare nei ragazzi capacità di attenzione e concentrazione, mentre abituano a risposte univoche e veloci. Sovrastimolati da giochini elettronici e dall’uso compulsivo di cellulari ecomputer i nostri ragazzi sembrano aver perso la capacità di attendere e magari di annoiarsi per qualche secondo senza perdere il filo: ma senza queste capacità è impossibile leggere o seguire una lezione.

Quanto all’“impresa” essa è talmente in contrasto con l’aspetto libero e gratuito di qualsiasi acquisizione di sapere che il pensare di dover sottomettere ad una gretta logica utilitaristica il percorso scolastico dovrebbe ripugnare ad ogni insegnante.

Alla fine, la scuola torna ad essere (come affermava tanto tempo fa Pierre Bourdieu) una macchina per “la riproduzione culturale” e per la “conservazione sociale” e rinuncia alla sua potenzialità di luogo in cui le differenze iniziali si attenuano e, tendenzialmente, si superano. Questo ci dicono oggi tutti i dati statistici relativi all’istruzione.

Disinnescare la retromarcia

C’è una via d’uscita, c’è un modo per disinnescare la retromarcia? Certo che sì, purché chi lavora a scuola (chi manda avanti, concretamente, la scuola) non si impantani negli idola tribus correnti. Il più pericoloso è quello della “meritocrazia”: è dovere di chi insegna denunciare l’ideologia meritocratica come un modo, peraltro grezzo, di legittimare le diseguaglianze, di garantire a les héritiers (7), ai figli delle famiglie abbienti una rendita di posizione che occulti il privilegio della nascita e metta avanti il “merito”. E poi bisogna ricordarsi che non basta comprendere, ma bisogna agire. In questo senso ci guida una riflessione di Bauman:

La consapevolezza di ciò che rende le cose così come sono può indurci tanto a gettare la spugna quanto ad agire. La conoscenza del modo in cui funzionano i meccanismi sociali complessi e non immediatamente visibili che forgiano la nostra condizione è notoriamente un’arma a doppio taglio. Il più delle volte se ne fanno due usi ben distinti, che Pierre Bourdieu ha definito, in modo appropriato, “cinico” e “clinico”. Tale conoscenza può essere usata “cinicamente”: poiché il mondo è quello che è, penserò ad una strategia che mi permetta di sfruttare le sue regole a mio vantaggio; che il mondo sia equo o iniquo, piacevole o no, è una questione irrilevante. Quando è usata “clinicamente”, quella stessa conoscenza può aiutare te e me a combattere più efficacemente ciò che entrambi consideriamo sbagliato, nocivo o lesivo del nostro senso morale. Da sola, la conoscenza non ci fa decidere per l’uno o l’altro degli usi. Questa, in ultima analisi, dovrà essere una scelta nostra. Ma senza quella conoscenza non esisterebbe una scelta iniziale. Con quella conoscenza le donne e gli uomini liberi hanno un’opportunità di esercitare la propria libertà. (8)

La scuola è regolata da meccanismi sociali complessi: il primo passo consiste nel riconoscere ed analizzare tali meccanismi. Ad esempio, noi sappiamo, come abbiamo già detto – e molti dati ce lo confermano – che la scuola italiana è sempre più una scuola classista. Cosa vogliamo fare di tale conoscenza? Bene, se la vogliamo usare “cinicamente” cercheremo di trarre un vantaggio personale: per esempio, preferiremo insegnare in un liceo classico e, se ci capiterà invece un istituto professionale, ci metteremo l’animo in pace e ci diremo che in quelle condizioni va già bene se l’insegnante entra in classe e controlla che gli studenti non si azzuffino. Potremmo, però, decidere di usare la nostra conoscenza “clinicamente”, per “combattere più efficacemente ciò che consideriamo sbagliato, nocivo o lesivo del nostro senso morale”.

Oggi la strada è in salita: ma ciò non significa che donne ed uomini, cui è affidato l’importante compito di educare ed istruire, debbano rinunciare alla loro dignità ed alla loro libertà di giudizio. Proprio oggi, nel momento in cui il pensiero debole ed omologato si esprime compiutamente nelle scuole e nelle università, è quanto mai necessaria un’opera di disvelamento e di opposizione; essa deve partire da insegnanti consapevoli, in primo luogo, che la loro lotta è volta verso la costruzione di una società migliore di quella in cui una classe dominante rapace ed insensibile ci vuol fare vivere.

Note

1) Barone C., Le trappole della meritocrazia, il Mulino, Bologna 2012.
2) Legge 10 marzo 2000, n. 62, Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione.
3) Guido Calogero, Scuola sotto inchiesta, Einaudi, Torino 1965, p.
4) ibidem, p. 284.
5) La Buona scuola, p. 124.
6) Nota MIUR 7/01/2016.
7) È questo il bel titolo del saggio di Bourdieu cui si alludeva prima: è del 1964, ma è lì che stiamo tornando.
8) Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000, p. 10.

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RISORSE IN RETE

Legge 13 luglio 2015, n. 107 qui.

La LIP – Legge di iniziativa popolare per una buona scuola per la Repubblica

Questo è il sito della LIP e questo è il profilo facebook Adotta la LIP.

Qui si può leggere il pdf della tabella comparativa, tra la “Buona Scuola” di Renzi e la “Legge di iniziativa popolare per una buona scuola per la Repubblica“.

Le puntate precedenti di vivalascuola qui.

Da Gelmini a Giannini

Bilancio degli anni scolastici 2008-2009, 2009-2010, 2010-2011, 2011-2012, 2012-2013, 2013-2014, 2014-2015.

Cosa fanno gli insegnanti

Vedi i siti di ReteScuole, Cgil, Cobas, Unicobas, Anief, Gilda, Usb,Lavoratori Autoconvocati della Scuola Roma, Cub, Coordinamento Nazionale per la scuola della Costituzione, Comitato Scuola Pubblica.

Finestre sulla scuola e sull’educazione

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Siti di informazione scolastica

OrizzonteScuola, La Tecnica della Scuola, TuttoScuola.

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(Vivalascuola è curata da Nives Camisa, Giorgio Morale, Roberto Plevano, Alberto Sabbadini)

 

Vivalascuola. La scuola in retromarcia

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