A scuola con il pc? È utile solo se ci si rimette in gioco

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di  Massimo Russo,  La Stampa  28.9.2015.  

Secondo il rapporto Ocse le nuove tecnologie non migliorano le competenze degli studenti:
per cogliere le opportunità della rete bisogna riscrivere la pedagogia
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Gli indicatori statistici misurano la tecnologia nella scuola a chili: quantità di lim – le lavagne interattive multimediali – numero di computer, tablet, megabit di velocità di connessione. Come se l’innovazione fosse una questione di ferro e di programmi, di hardware e sotfware, e non invece di una didattica da ripensare per essere al passo della contemporaneità.
Per questo non c’è da stupirsi se i numeri dell’Ocse citati ieri su La Stampa nell’analisi di Andrea Gavosto, direttore della fondazione Agnelli, affermano che di per sé le tecnologie non «portano a un miglioramento apprezzabile nelle competenze linguistiche, matematiche e scientifiche degli studenti», e anzi «un uso intensivo del computer a scuola conduce a risultati significativamente peggiori di chi lo utilizza moderatamente». In realtà, come Gavosto riconosce per cercare di spiegare l’apparente paradosso, e come dice lo stesso rapporto Ocse nella sua parte conclusiva, la chiave è riscrivere la pedagogia, per poter cogliere al meglio le opportunità dell’epoca della rete.

L’esperienza di Bergamo 
Se partiamo da qui lo scenario si illumina in modo diverso, e la tecnologia è solo la piattaforma abilitante per cambiare il modo di imparare e di insegnare, in un’alleanza che tiene insieme famiglie, ragazzi, docenti, istituzioni e aziende. Ne sanno qualcosa al liceo Lussana di Bergamo, dove da anni la professoressa Dianora Bardi utilizza un metodo che – visti i risultati – non possiamo più definire sperimentale: via i banchi e la cattedra, gli studenti lavorano in gruppi con tablet e pc con obiettivi trasversali alle singole materie, interagendo a casa e a scuola sul cloud, affiancando alle valutazioni dei prof quelle che loro stessi danno dei loro progressi.
I ragazzi sono protagonisti della riscrittura del sapere, sfruttando a pieno le potenzialità offerte da collaborazione e condivisione. I primi maturandi sono risultati tra i migliori della Lombardia, spingendo altre 300 scuole a percorrere strade analoghe, alcune attraverso una convenzione con Impara digitale, l’associazione di cui Bardi è fondatrice, che ora si è aggiudicata anche un bando per portare il metodo in Basilicata. La buona notizia è che Impara digitale – che proprio sabato scorso a Bergamo ha inaugurato la nuova sede, messa disposizione dal Comune con la partnership di aziende quali Cisco, Acer, Intel, Telecom – non è sola.
Il tempo della scuola e quello della vita, del lavoro, si fondono. La società di consulenza McKinsey si è offerta di mandare i propri esperti a insegnare ai ragazzi come si sostiene un colloquio per un impiego, o come si prepara un curriculum. Gli aderenti al progetto tablet school ormai sono più di 800. Poli formativi sperimentali nascono in Friuli, nelle Marche, a Osimo e Jesi, al Sud.

La flipper class
Alcuni stanno testando i metodi applicati all’estero della flipper class, che ribalta lo schema tradizionale: le nozioni non si imparano in aula ma a casa. Poi i ragazzi, facendo esercizio in classe con gli insegnanti, approfondiscono e mettono alla prova la loro comprensione. Altri, capofila l’istituto tecnico Majorana di Brindisi, hanno iniziato ad adottare libri open source, a codice aperto, scritti in pool dagli insegnanti degli istituti che aderiscono al progetto Book in progress. Il denaro risparmiato dalle famiglie, 300 euro l’anno, è investito in tecnologie che cambiano la didattica.
Le infrastrutture servono, ma il mutamento lo fanno le persone, a costi tutto sommato sostenibili. Il ministero assiste, incoraggia, affianca. Ma la buona scuola parte prima di tutto da chi ogni giorno, con coraggio, si rimette in gioco.

A scuola con il pc? È utile solo se ci si rimette in gioco ultima modifica: 2015-09-28T07:08:57+02:00 da
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