di Fabrizio Forquet, Il Sole 24 Ore 6.5.2015
Chi ha paura del merito? Chi ha paura della valutazione? Chi ha paura di una governance che privilegi la qualità dell’insegnamento e l’efficienza organizzativa? La sfida portata ieri in piazza dai sindacati della scuola è molto più di una protesta sindacale. C’è in gioco il futuro che vogliamo, il discrimine tra chi si attarda nella rivendicazione corporativa del mondo che fu e chi prova a cambiare almeno un po’.
Ci sono migliaia di insegnanti in Italia, forse la maggioranza, che vogliono una scuola che cominci finalmente a premiare i migliori docenti, che insegni quello che più serve a un ragazzo che dovrà trovare un buon lavoro, che faccia della qualità dell’istruzione, misurata attraverso una valutazione, la sua ragion d’essere.
C’è poi un blocco sindacale che guarda con diffidenza a tutto questo, che trasforma un diffuso – e più che legittimo – malcontento in un potere forte di conservazione e spirito di rivendicazione, che fa male alla scuola italiana e agli studenti che la abitano.
Il disegno di legge del governo si inserisce esattamente in questa tensione. Prova a cambiare. Prova a farlo spingendo in favore dell’autonomia e dei poteri dei presidi, prova a premiare il merito dei docenti e a rafforzare i criteri di valutazione, prova a mettere al centro, sul modello tedesco, l’alternanza tra scuola e lavoro.
Su questa linea, coraggiosa, la #buonascuola di Matteo Renzi rischia però continuamente di perdere pezzi sotto la pressione delle resistenze sindacali e di una parte dello stesso Pd. Per ultima, nei giorni scorsi, è stata limitata proprio l’autonomia dei presidi, uno degli aspetti migliori della riforma. Il preside non elaborerà più il piano dell’offerta formativa, ma dovrà condividerlo con il collegio dei docenti e con il consiglio di istituto. Anche nella scelta dei docenti da premiare il dirigente dovrà convivere strettamente con il consiglio di istituto e il comitato di valutazione. Rispunta, così, una mentalità collegiale nella gestione dell’istruzione che ha fatto fin troppi danni da quando si è affermata negli anni 70.
Sulla scuola, poi, si ritorna a investire. È un bene. Ma ancora una volta si investe troppo in stabilizzazioni e nuove assunzioni, piuttosto che in laboratori e nel potenziamento di informatica e inglese. I premi al merito, che la riforma meritoriamente introduce, dovevano assorbire il 70% delle risorse destinate agli aumenti retributivi, invece ne assorbiranno solo il 40%, il resto sarà destinato agli scatti di anzianità.
Se c’è quindi un rischio da evitare è quello che gli obiettivi della riforma vengano via via vanificati nel suo percorso parlamentare. Il periodo elettorale in cui ci si ritrova a discutere di scuola in Parlamento, con gli insegnanti in piazza, rende questo pericolo ancora più acuto.
Ma Renzi ha già dimostrato, quando si è trattato di portare a casa il Jobs Act, di saper sopportare un livello di scontro elevato con il sindacato. Dopo aver vinto sul lavoro, non si può cedere proprio sulla scuola, la riforma simbolo di un governo che vuole il cambiamento.
Un’ultima considerazione va fatta sulla data scelta dai sindacati per lo sciopero. Che credibilità può avere domani in classe un docente che si trova a spiegare ai suoi studenti che i test Invalsi – le prove attraverso cui lo Stato ha cominciato a valutare i livelli di apprendimento e dunque la qualità dell’insegnamento – ieri non si sono fatti perché proprio in questa data è stato fissato lo sciopero degli insegnanti?
Se l’etica dei comportamenti è il primo valore che un “maestro” è chiamato a trasmettere ai suoi alunni, come è possibile che nella scuola italiana non è partita una rivolta contro la decisione di fissare lo sciopero proprio in questa giornata?