Rossella Latempa: 15 anni di riforme nella Scuola italiana

roars_logodi Rossella Latempa, Roars, 20.3.2023.

Quarto Convegno Roars, Trento 24-24 febbraio 2023.

Gilda Venezia
II Sessione: MERITOCRAZIA, VALUTAZIONE E CAPITALE UMANO NELL’ISTRUZIONE SCOLASTICA

 

 

Daniela Palma. Adesso proseguiamo con una relazione che ci porta in Italia. L’ordine neoliberale è qualcosa di molto pervasivo. Gli Stati Uniti ne sono una buona esemplificazione. Siamo però in grado di osservare come nel nostro paese le dinamiche di questo fenomeno siano state particolarmente pronunciate e, a questo fine, introduco la relazione della professoressa Rossella Latempa, insegnante e membro della nostra redazione di Roars, e che ci parlerà dei 15 anni di riforme che hanno attraversato la scuola italiana in questo contesto paradigmatico.

Rossella Latempa. Grazie a tutti. Io proverò a sintetizzare le riforme più recenti che hanno interessato la nostra scuola; riforme che, a ben vedere, sono state condotte –  indipendentemente dal governo in carica e anche a dispetto delle dichiarazioni di discontinuità che abbiamo sempre ascoltato – all’interno di una medesima impostazione, con un orizzonte culturale comune in cui proprio il tema del merito e della sua misurazione come abbiamo sentito anche nelle relazioni precedenti, assume un ruolo chiave. Ho organizzato in tre punti questo breve intervento: – partirò con una sintesi di quelli che sono i temi centrali delle politiche educative più recenti che, a ben vedere, erano già evidenti nella cultura politica degli anni ’90 e che conducono dritti al PNRR. Mi soffermerò poi su uno di questi temi, che è la valutazione standardizzata, per poi fare delle riflessioni conclusive.

Quindi, vengo al primo di questi punti e devo però partire in estrema sintesi con il quadro internazionale, cioè con la formazione di quello spazio di elaborazione e di decisione in materia di istruzione, di ricerca, che si è andato consolidando negli ultimi decenni e che ha influenzato  l’attuazione delle politiche educative, attribuendo anche agli apparati formativi un compito specifico: quello di formare capitale umano per garantire la salute e lo sviluppo dei sistemi socio-economici. Questo spazio è popolato da varie organizzazioni, da gruppi di industriali, da istituti bancari,  gruppi di media, di consulenza etc.  E ha avuto un ruolo fondamentale anche nella modifica del linguaggio e dell’immaginario educativo, anche in Italia, con le specificità del nostro paese. Le riforme più recenti si situano all’interno di questo quadro e anche nel nostro paese soggetti quali fondazioni private, o centri studio,  società di consulenza, hanno acquisito sempre più spazio nell’interlocuzione politica e nel dibattito pubblico.

Le grandi linee di riforma possono essere schematizzate attorno a pochi temi chiave: una decentralizzazione progressiva e una trasformazione dell’istruzione da funzione e compito dello Stato a servizio; un orientamento al mercato sempre più evidente, con enfasi sul capitale umano, sull’imprenditorializzazione, sulla digitalizzazione; politiche dell’insegnamento improntate sempre a valori e tecniche tipiche del settore privato (gestione per obiettivi, gerarchizzazione, compressione della libertà di insegnamento) infine uso sempre più massiccio di indicatori e strumenti di misurazione standardizzati.

Il tema del merito corre trasversalmente a queste linee di riforma: sono meritevoli oggi quegli studenti che imparano fin da piccoli a valorizzare se stessi, a mettere a frutto i propri talenti, a documentare i propri crediti e a costruire un’immagine pubblica di sé nel curriculum dello studente. Sono meritevoli gli insegnanti che si lascino accompagnare, questo è il termine che si usa oggi nei documenti istituzionali. Nel 2017 si usava “destrutturare le sinapsi cerebrali“: il significato è disciplinare,  integrare all’interno di un modello organizzativo  teorizzato da tecnici ed esperti. E sono meritevoli infine le scuole che migliorano anno dopo anno il proprio posizionamento rispetto al benchmark che gli Invalsi si fornisce nei rapporti di autovalutazione, oppure che migliorano il proprio valore aggiunto negli esiti dei test.

Le categorie concettuali e l’idea di scuola con cui ci confrontiamo oggi erano a ben vedere era già presenti nella cultura che si andava consolidando negli anni ’90. Rileggere i testi istituzionali di quegli anni è assai significativo, specie perché il linguaggio che vi troviamo non ha nulla a che vedere con quello attuale, molto ridondante e carico di connotazioni morali. Rileggere quei testi consente, come diceva prima Professori Ricciardi, di comprendere la costruzione di un’egemonia.

Qui parla Berlinguer (Una sfida per il Paese, Studi e Documenti degli Annali della Pubblica Istruzione, 1998), che riporta di un protocollo di intesa  siglato nel ’90 tra Confindustria e il Ministero della Pubblica Istruzione; un fatto di straordinaria importanza, rileva Berlinguer, che segnava il superamento di un vecchio e abusato luogo comune, e cioè che la scuola avesse un suo mondo, un suo orizzonte, e la produzione ne avesse un altro. Una nuova cultura della scuola prendeva forma; “nuove tecniche, nuovi metodi che avevano come riferimento la cultura e l’organizzazione della dimensione aziendale”.

I temi che ho sintetizzato li troviamo tutti nei testi istituzionali degli anni ’90-2000. La destatalizzazione e lo Stato valutatore (Sabino Cassese, la conferenza della Pubblica Istruzione, 1990), il patto del lavoro tra governo Prodi e parti sociali del ’96, che introduce il tema del mismatch e dell’ adeguamento domanda/offerta; il tentativo di Berlinguer di inserire una differenziazione salariale (di cui tanto si parla oggi) su base locale nel contratto collettivo degli insegnanti del 2000; e poi il nesso autonomia/valutazioni che si va saldando progressivamente attorno all’idea di qualità. Nelle linee guida per la diffusione della qualità  del 2001,  si descrive la scuola dell’Autonomia come un soggetto culturale che ragiona e agisce in maniera imprenditoriale: razionalizza,  ottimizza e misura i suoi risultati.  Sempre del 2001 la riforma costituzionale del Titolo V; poi la riforma Moratti e gli anni succeessivi, dell’essenzializzazione e della razionalizzazione (Gelmini, Tremonti), con i 10 miliardi e le 100 mila cattedre sottratti all’istruzione pubblica; per arrivare poi alla famosa lettera Trichet -Draghi, la successiva curadel governo Monti, e con il Ministro Profumo la nascita del sistema nazionale di valutazione  nel 2013;  un’architettura complessa in cui l’INVALSI svolge un ruolo centrale. Ma l’anno chiave, nelle politiche più recenti, è sicuramente il 2015, anno della Buona Scuola, la riforma di sistema che realizza una serie di interventi coerenti, dall’alternanza scuola lavoro obbligatoria alle certificazioni individuali (INVALSI), la chiamata diretta dei docenti, i nuovi poteri dei dirigenti, l’accento sulla valutazione, etc. Il manifesto culturale, che fa da sfondo a questa legge 107, è un testo del 2014 intitolato proprio “La Buona Scuola: facciamo crescere il paese” e che invitava a crescere, competere e correre. E bisognava cominciare fin da subito, fin dall’infanzia. Io voglio mostrare, appunto, qui in una sede ben lontana da quella della scuola di base, due immagini che riguardano la scuola dei piccoli, i bambini. A sinistra vedete l’immagine di un indicatore tratto dal rapporto di autovalutazione dell’infanzia, un documento INVALSI in cui le scuole si autovalutano, attribuendosi un punteggio riguardo, ad esempio, ai risultati a distanza: come leggiamo si fa già riferimento al futuro inserimento nel mondo del lavoro per bambini dai 3 ai 5 anni. A destra, invece, un’immagine che forse avete già visto perché aveva destato un po’ di sensazione.

E’ la domanda sulle aspettative future del questionario che serve per creare il profilo dello studente, proposta ai bambini di 10 anni assieme al test del 2018: “avrò abbastanza soldi per vivere, raggiungerò il titolo di studio che voglio nella vita, riuscirò a fare ciò che desidero, a comprare le cose che voglio”. Sono immagini inequivocabili secondo me, che fanno capire come questa pedagogia economica lavori fin da subito, e quindi come la scuola debba imparare a formare un nuovo tipo umano: un produttore/consumatore strategico e competente.  Arriviamo poi all’attualità, con il PNRR da una parte, che in sostanza, riaggiorna i temi di sempre, accelerandone l’attuazione grazie ai vincoli dei fondi europei e alle decretazioni d’urgenza; dall’altra si snoda il percorso dell’autonomia differenziata, che nasce col governo Gentiloni e arriva alla giornata storica di cui parla Zaia in questo articolo del 2 febbraio scorso, con il disegno di legge Calderoli. All’interno di questa sintesi che ho brevemente fatto, ritorno sui temi che avevo elencato all’inizio per focalizzarmi un po’ più a fondo su questo, che è quello della valutazione standardizzata. Sicuramente il cardine di questa nuova idea di scuola, apparentemente un aspetto tecnico, oggettivo, ma in realtà profondamente politico e culturale.

Per capire di che cosa parlo prendo un’immagine dell’OCSE (Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica), che per me è molto significativa, e che mostra quello che intende l’organizzazione internazionale per istruzione, cioè una crescita di capitale umano,  un accumulo di competenze,  che vanno costantemente misurate e riqualificate.

Anno dopo anno, la vita umana è paragonabile ad una salita solitaria che parte dall’infanzia e si snoda attraverso la vetta del successo personale. Questa salita si svolge sotto il sole del contesto socio-economico, quindi qualcosa che non è dato mutare, che è assunto, diciamo, e in corrispondenza di diversi traguardi troviamo le indagini che l’OCSE mette in campo, sia quelle strutturali, sia quelle sperimentali, che toccano sia le cosiddette  cognitive skills che soft skills. Quindi, si parte a cinque anni con le prime valutazioni standardizzate, indagini sperimentali sulle competenze emergenti: quelle che la critica internazionale ha ribattezzato test Baby Pisa. Poi si prosegue a dieci anni, a 15 anni, con altri domini, poi i classici test Pisa, fino ad arrivare all’età adulta. Questa è l’ottica dell’OCSE. Questa è l’ottica dominante: una sorta di pig farming school, una logica da allevamento intensivo, prendendo in prestito le parole del pedagogista e filosofo dell’educazione Gert Biesta:

“the idea of teaching as an intervention that is supposedly making some impact on the student – an impact that can then be measured through test scores. This may be a logic that works with pig farming, but not with the complex endeavour of education.”

L’idea, cioè, che l’insegnamento sia un processo che si può ottimizzare, che parte da un input e produce un output, e che quest’ultimo deve portare ad un risultato atteso che si può misurare con un test.  Quanto i più lontano, invece, l’autore scrive in questo bellissimo libro che è stato tradotto l’anno scorso per Raffaello Cortina, “Riscoprire l’insegnamento“.

In Italia che cosa succede? Beh, in Italia la fede nella valutazione standardizzata sembra inscalfibile. Questa è la homepage del nostro sistema nazionale di valutazione, in cui addirittura ci si richiama a Galileo Galilei per sottolineare che bisogna misurare tutto ciò che è misurabile e che anche quello che non è misurabile, va reso tale.

Questo è il paradigma dominante. D’altra parte,  se la scuola è capitale umano, c’è bisogno di un segnale credibile, standardizzato, comparabile per misurarlo. Non certo i giudizi degli insegnanti. Chiaramente, questo segnale è il test Invalsi e il test Invalsi va sostenuto ad ogni costo, anche in piena pandemia. Nella primavera del 2020, ad esempio, non si contano gli articoli pubblicati a sostegno delle prove, che quell’unico anno erano stati sospese.

Qui c’è, per esempio, la Fondazione Agnelli che ci ricorda che la perdita più grande di tutte, durante il lockdown era quella di  capitale umano. Una perdita all’epoca non quantificabile, perché i test INVALSI  erano stati cancellati. Ma il test è anche uno strumento meritocratico, lo strumento necessario per attribuire il merito. Lo spiegava bene Tito Boeri quando diceva:

“Lo sport nazionale in Italia è riempirsi la bocca di termini come “merito” e “meritocrazia”, applicati sistematicamente agli altri, per poi rifiutare qualsiasi metrica, qualsiasi misura della propria produttività. Senza queste misure “merito” è un termine vuoto, perché diventa del tutto arbitrario.”

Non esiste merito senza metrica, quindi. Perché è inutile riempirsi la bocca con questo termine, ‘meritocrazia’, se poi non misuriamo la nostra produttività. E la produttività a livello educativo è misurata col test INVALSI. Quindi, si saldano, nel sentire comune, strumenti come il test Invalsi e concetti di trasparenza, merito, qualità della scuola, etc. Questo è il senso comune e quindi oggi è opinione corrente che l’Invalsi sia l’ente titolato a produrre dati sulla scuola. Non si guarda a cosa fanno le scuole realmente, non si guarda alle valutazioni dei consigli di classe: si guarda ai dati dell’Invalsi, che misurerebbero competenzedivari, valore aggiunto (dal 2016), e per via indiretta, la qualità degli insegnanti e  dei dirigenti. Con il PNRR nascono poi nuovi indicatori. Ma ciò che è piuttosto sorprendente, almeno per me, è che tutti questi aspetti- di sistema, oppure relativi a singoli individui – derivano dal medesimo strumento. Questo strumento è un test standardizzato, sostanzialmente a risposte chiuse e in tre sole discipline, elaborato da gruppi tecnici, all’interno di un ente la cui struttura istituzionale non è paragonabile a quella di nessun’ altra realtà europea. Se leggiamo i rapporti Eurydice, ce ne rendiamo conto: una struttura guidata per anni da funzionari della banca d’Italia, da statistici, non sottoposta ad alcun confronto dialettico con il mondo dell’educazione, e dunque ad alcun controllo dal basso.

In realtà, siamo arrivati a questo punto in maniera progressiva, prevedibile e quindi anche politicamente contrastabile, perché era tutto già ben schematizzato in questo documento del 2008, scritto da tre economisti e indirizzato all’epoca alla Ministra Gelmini: D. Checchi, A. Ichino, G. Vittadini: “Un sistema di misurazione degli apprendimenti per la
valutazione delle scuole: finalità e aspetti metodologici“.

Nel testo gli autori sintetizzano la struttura di quello che sarebbe stato il nostro sistema nazionale di valutazione: prima test campionari, poi censuari, poi misura del valore aggiunto, e poi progressivamente costruzione di un sistema premiale-sanzionatorio che portasse eventualmente alla rimozione di docenti o alla chiusura di scuole;  legame tra test e percorsi futuri degli studenti, che puntualmente torna a galla, l‘ultima volta nel governo Draghi.

L’anno chiave, quello del vero cambiamento, è l’anno della Buona Scuola, il 2017, quando i test Invalsi diventano certificazioni individuali.

Tutti gli studenti in corrispondenza dell’esame di stato del primo ciclo e del secondo ciclo ricevono, oltre al diploma, una sorta di pagella INVALSI, come vedete nell’immagine. Come vedete, c’è la firma del direttore generale INVALSI, e c’è un voto sostanzialmente, un livello attribuito in ciascuna delle tre discipline oggetto dei test, accanto a un giudizio standardizzato. Queste certificazioni sono anche scaricabili online da una piattaforma che si chiama Bestr.it,  che produce questi simpatici bollini esagonali che permettono di vedere subito in maniera anche molto diretta e accattivante quanto vali nel test Invalsi.

E se quelle ipotesi degli economisti del 2008 sono diventate quasi tutte realtà- non del tutto- forse è perché appunto si è realizzata, progressivamente, gramscianamente la costruzione di un’egemonia attorno a questa idea di valutazione. Perché tutti i ministri di centro-sinistra,  quasi tutti i centrosinistra, dal 2008 ad oggi, hanno assunto quelle ipotesi nella loro agenda politica. C’è stata una costruzione di un’ opinione pubblica completamente orientata grazie anche a un’informazione schiacciata su una precisa rappresentazione della scuola, del suo fallimento, della professionalità dei docenti, della necessità di questi indicatori oggettivi di misurazione, grazie anche a un pressoché nullo conflitto politico-sindacale e grazie anche al supporto dell’Accademia, che collabora attivamente con l’INVALSI attraverso programmi di ricerca,  tesi di laurea, assegni di ricerca e altre collaborazioni di vario titolo. Tutto ciò ha evitato il nascere di un dibattito, quella discussione di cui parlava Michael Sandel all’inizio, un dibattito democratico. A tutto ciò aggiungiamo le risorse economiche, che comunque sono notevoli, drenate anno dopo anno. Interessanti i rilievi della Corte dei Conti che trovate in questo post.

Mi soffermo un attimo su un punto importante, quello della riproducibilità dei test e della loro pubblicità. Perché si fa un gran parlare di trasparenza, di accountability e addirittura qui la responsabile area prove Invalsi all’università La Sapienza, parlava del test come bene pubblico nella presentazione del rapporto del ’22.

Tuttavia, bisogna sottolineare che i test INVALSI non sono affatto pubblici, cioè i contenuti che vengono proposti agli studenti, fatta eccezione per i test cartacei delle scuole primarie, da quando i test sono diventati computerizzati e quindi valutano il singolo studente, non sono accessibili, non sono pubblici. La banca dati è inaccessibile per chiunque volesse entrare nel merito del perché si è guadagnato quel bollino, da parte di quel determinato studente. Da dove deriva quel particolare livello? Sia come insegnanti che come genitori, non abbiamo modo né di fare un accesso agli atti né di verificare, né di ragionare ex post. La banca dati è chiusa perché le prove sono ancorate e questo è un punto per me davvero significativo. Mi domando come mai non si apra una discussione pubblica, perché non si discuta di questo. Si parla di miglioramento, ma non abbiamo modo di conoscere i contenuti di quelle stesse prove che dovrebbero condurre ad un ipotetico miglioramento.

Si tratta di un punto di grande opacità su cui si inserisce una novità, quella del PNRR. E qui mi riferisco, tra le tante missioni e azioni connesse a questo piano di rilancio, alla circostanza che si è realizzata nell’estate scorsa: l’ attribuzione di fondi alle scuole sulla base proprio di un indicatore INVALSI, un indicatore che è stato denominato variamente dispersioni implicita, indicatori di fragilità. Il ministro Bianchi, con un decreto dell’estate del ’22, distribuisce 500mila euro alle scuole sulla base di questo indicatore, nell’ambito della missione cosiddetta di riduzione dei divari.

In realtà c’è un’intuizione retorica di fondo da parte dell’Istituto davvero notevole, sebbene non originale (pensiamo alla storia di politica americana): quella di legare il test Invalsi al concetto di dispersione scolastica. Già negli anni più recenti avevamo assistito a un cambio di comunicazione, a un salto comunicativo: più che strumento meritocratico, si cominciava a costruire una nuova retorica che, diciamo, potremmo definire come più ecumenica, più progressista. Cioè, il test Invalsi come strumento di contrasto alle disuguaglianze.

Quindi, tutti devono svolgere il test INVALSI perché i dati sono per tutti, per non lasciare indietro nessuno. Anche lo slogan è simile a quello del No Child Left Behind americano: la scuola alla ricerca dell’equità, bisogna affrontare l’emergenza senza perdere l’anima, etc. E dunque, in periodo di PNRR e di attenzioni ai divari, ecco che nasce l’intuizione di legare il test alla fragilità degli apprendimenti e, quindi, al superamento di questi divari.

Nasce quindi un nuovo indicatore che è l’indicatore di fragilità, che permetterebbero di identificare gli studenti in condizione di fragilità. La pubblicistica che accompagna questa nuova intuizione è ricca di suggestioni, perché si legge che:

“L’indicatore di fragilità INVALSI permette di individuare precocemente gli studenti che maggiormente sono esposti ai rischi connessi all’insuccesso scolastico”

e ancora

L’istituto fornirà a tutte le altre scuole, in ottica preventiva strumenti e materiali per riconoscere gli alunni che manifestano segnali relativi a potenziali situazioni di disagio.”

Questo indicatore permetterebbe di individuare precocemente gli studenti esposti all’insuccesso, che l’istituto fornirà in ottica preventiva a tutte le scuole, non solo a quelle 3.200, materiali per riconoscere le potenziali situazioni di disagio.

Ciò che è piuttosto singolare è che non c’è consapevolezza, non c’è dibattito su questo passaggio così rilevante. C’è un post di Roars del novembre scorso in cui si prova ad entrare nel dettaglio di questa operazione, a sottolineare la mancanza di trasparenza, la mancanza di informazione per le famiglie, di quella che chiamiamo schedatura, perché ciascuno studente può risultare fragile se solo guadagna un livello basso nella gaussiana dei risultati possibili delle abilità misurate dai test. Questo post viene ripreso dalla stampa. INVALSI replica, negando sostanzialmente questa schedatura.

Però, succede che le scuole purtroppo lavorano e arrivano i dati, i file con le condizioni di fragilità.

Arriva la guida di lettura INVALSI sulla condizione di fragilità, in cui leggiamo invece che ogni riga identifica il singolo studente e la sua condizione di fragilità in matematica, in italiano, in inglese. E quindi nascono le prime riunioni. Nelle immagini, vedete una circolare pubblica, che invita a condividere i dati, a progettare le attività scolastiche che avranno come target questi studenti risultati fragili per l’INVALSI.

Intanto la macchina del PNRR continua.  Il Ministro Valditara pubblica le istruzioni operative per attuare le azioni nell’ambito della missione di riduzione dei divari. Il programma PNRR è “un programma di performance”, ci viene ricordato. Quindi, un programma con traguardi quantitativi; e le attività che le scuole possono svolgere non sono libere, ma  “funzionalmente vincolate al raggiungimento di questi traguardi”  e strutturate secondo  precise istruzioni. Cosa succede se gli obiettivi non vengono raggiunto? Se la valutazione dell’impatto è negativa, se la scuola è inerte, eccetera? Beh, non è ancora chiaro. Fatto sta che nei corridoi o nelle formazioni sindacali si comincia a parlare di commissariamento. Forse perché ci si riferisce a questa eventualità (art. 12 comma 3 del Decreto 77/21):

Fonte: FLC-CGIL

e cioè che l’unità di missione del PNR possa attuare la procedura dei loro poteri sostitutivi, qualora si compromettessero i target europei. Vedremo. Staremo a vedere.

Certo è che a me tornano alla mente desiderata di lungo corso, ad esempio le parole di Daniele Checchi, che è lo stesso economista del documento 2008, che si è sempre occupato di scuola, che parla con rammarico del fatto che le “scuole di insuccesso” in Italia normalmente non subiscano conseguenze. Non la rimozione dei dirigenti, non la chiusura, non la trasformazione in charter schools. E non si capisce perché,  sfuggirebbero i benefici di questa scelta o forse semplicemente è una questione di mancanza di consenso adeguato. Ecco, a me sembra che il PNRR vada nella direzione di chiudere il cerchio della valutazione standardizzata, e forse di superare il problema del consenso.

“In altri Paesi la classificazione di “scuola di insuccesso” […]

produce normalmente interventi didattici, che partono dall’invio di ispettori, possono proseguire con la rimozione del dirigente e possono culminare con la chiusura della scuola e/o la sua trasformazione istituzionale in partnership pubblico-privato (charter schools, academies).

Nulla del genere è stato previsto nel contesto italiano. Non è chiaro se si tratti di una scelta strategica (nel qual caso ne sfuggirebbero i benefici attesi) o di una incapacità di raggiungere un consenso adeguato”

(D.Checchi, Liberare la scuola, 2020)

Concludo con l’ultimo punto che riguarda le possibili conseguenze. Nelle scuole si respira quasi la consapevolezza, con grande rammarico, che i vincoli del PNRR favoriranno progetti da parte di fornitori esterni, realizzati, diciamo, chiavi in mano.

“Vincoli strettamente quantitativi che, come hanno evidenziato alcuni dirigenti scolastici, rischiano di favorire la realizzazione di progetti  «chiavi in mano» da parte dei fornitori , ma che certamente consentiranno un più agevole raggiungimento dei target nei tempi a disposizione.”

I vincoli sono strettissimi, la valutazione incombe, la tabella di marcia è stringente, e ancora non è chiaro che ne sarà di quelle liste dei fragili che sono state già condivise nei collegi docenti e sui quali si sta ragionando sulle azioni da svolgere.

La proposta di consulenze, di percorsi di supporto con vari costi, a seconda che si lavori in rete o come singole scuole, è degna delle migliori occasioni, costante è la pubblicità che arriva alle scuole.

Tra queste, non mancano le proposte di familiarizzazione con i test, sia sotto forma di palestre digitali, sia sotto forma di corsi di formazione specifici, oppure di altro. È chiaro che più cresce la posta in gioco associata al test INVALSI, più cresce la competizione tra scuole e la concorrenza, il marketing scolastico e quindi la segregazione territoriale.

Ci sono anche possibili connessioni con altre azioni del PNRR, ad esempio la riforma dell’orientamento,  che prevede l’introduzione di un portfolio digitale (Eportfolio), e ci si chiede quali saranno le competenze stratificate in questo portfolio. Dubitiamo che siano i voti degli insegnanti. L’INVALSI stesso suggerisce di inserire questi badge elettronici proprio nel portfolio digitale degli studenti.

Diciamo, e mi fermo, che sarebbe necessario un confronto politico, franco; un bilancio  delle politiche fatte finora, che ci stanno conducendo ad una scuola completamente diversa da quella che si tentava di costruire, chiamiamola la scuola della Costituzione, fino alla fine degli anni 70. Stiamo di fatto alimentando una tecnocrazia educativa, una delega delle scelte politiche a soggetti tecnici non controllabili; una standardizzazione valutativa, una tracciabilità individuale, l’esternalizzazione delle credenziali educative pubbliche, oltre all’omologazione, di cui abbiamo già parlato, all’ eliminazione di contenuti culturali, e non parlo del Piano scuola 4.0 e dell’ norme espansione  e della svendita della spazio scolastico al mercato delle tecnologie educative, cosa che meriterebbe altrettanto approfondimento. Per concludere, poi, con l’autonomia differenziata che non farà che accorciare la catena di comando e subordinare ulteriormente gli insegnanti a poteri politici dell’assessore di turno. Dovremmo cominciare, anche solo per provare ad articolare un’alternativa contro egemonica, a ripulire il lessico della politica, a riconoscere quanto sia rovesciata la lingua con cui ci parla l’informazione, con cui ci parlano la normativa ei documenti ufficiali.  Che quando parlano di superare la l’autoreferenzialità di noi docenti, stanno parlando della nostra libertà di insegnamento e della nostra autonomia culturale. Dove per creatività si intende imprenditorialità, l’equità è standardizzazione, la responsabilità è valutazione, il miglioramento è competizione, eccetera, eccetera. Fino ad arrivare alla tanto attuale dispersione, oggi anche nella sua versione implicitainventata dall’INVALSI, che altro non è che, in fondo, la “vecchia” selezione di classe, che sarebbe il caso di reintrodurre nel linguaggio corrente, legando sempre il problema educativo a quello sociale ed economico. Chiudo e propongo, perché chi avesse coraggio politico (anche se non ho grande fiducia in proposito), che si potrebbe cominciare da un piccolo passo: la pietra angolare di questa costruzione che ho provato a raccontarvi, ovvero il test INVALSI. Si potrebbe allora partire dall’eliminazione dei test censuari e da un’organizzazione di test a campione. Questo spezzerebbe il legame individuale test-studente, la schedatura dei fragili, il tracciamento. E poi si potrebbe nutrire la nostra immaginazione ad esempio con la lettura di questo libro che ho avuto la fortuna di contribuire a tradurre con Davide Borrelli, che è “Educazione Democratica“, di Christian Laval e Francis Vergne. Grazie


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Rossella Latempa: 15 anni di riforme nella Scuola italiana ultima modifica: 2023-03-21T04:37:54+01:00 da

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